«Alcuni operatori imputati hanno continuato le loro carriere: così si lancia un messaggio di impunità»
«La mancanza di una legge sulla tortura ci pone agli ultimi posti in Europa» dice Mauro Palma, che per lavoro gira e ispeziona le carceri del Vecchio Continente. Fondatore di Antigone (l'associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale) è stato appena rieletto presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura.
Dopo la requisitoria dei pm al processo sul G8 sulle condizioni inumane e degradanti tenute alla caserma di Bolzaneto in Italia si torna a parlare di tortura. Si tratta di un fatto circoscritto o diffuso?
«Tutt'è due. E' circoscritto perché si riferisce a una ben determinata situazione, quella di Bolzaneto nel 2001. E' però anche diffuso perché non riguarda un singolo operatore che può avere esagerato, e nemmeno di tre o quattro che hanno sbagliato, ma tutta una struttura detentiva in cui si è collettivamente degenerato. La questione non può quindi essere liquidata con il solito paradigma delle mele marce. Dietro c'è una cultura di un certo tipo, un'impreparazione, una carenza formativa, una sottovalutazione del problema, ci sono responsabilità omissive e un'investigazione tardiva anche interna. Mi preoccupa che alcune persone imputate abbiano continuato le loro carriere: questo è un modo per lanciare al singolo operatore un messaggio di impunità».
Un malcostume limitato alla caserma di Bolzaneto o diffuso anche altrove?
«Fortunatamente non ho trovato negli anni delle grandi situazioni che confermassero una tendenza culturale ampiamente diffusa. Però cito tre fatti gravi:nel 2000 il pestaggio avvenuto a Sassari nel carcere di san Sebastiano e nel 2001 gli episodi a Napoli a marzo e a Genova a luglio. Tre fatti gravi in due anni con condotte che verranno quasi sicuramente prescritte».
Anche perché in Italia la tortura non è reato. L’Italia ha ratificato la convenzione Onu che vieta la tortura oltre vent’anni fa, nel 1987, ma da allora non è ancora stata tradotta in una legge penale. Perché secondo lei?
«All'inizio le autorità italiane sostenevano che non c'era bisogno di una traduzione di uno specifico reato perché le condotte che costituivano quel reato erano perseguite attraverso altre forme (violenza personale, abuso d'ufficio). Questa è una posizione debole: lo vediamo ora con Genova: i tempi di prescrizione per un abuso d'ufficio sono ben diversi che quelli della tortura. Ora tutte le forze politiche almeno in teoria sono favorevoli a una legge sulla tortura. Ma non è stata una priorità di questo Parlamento».
Questo buco legislativo come ci colloca in Europa?
«A uno degli ultimi posti per l'attenzione delle forze politiche al problema. Questo vuoto legislativo penso sia più grave delle condotte dei singoli operatori. La ratifica Onu è avvenuta nel 1987, siamo nel 2008 e ancora ci stiamo a intrerrogare su dove sia il reato. Del resto i magistrati a Genova hanno dovuto ammettere: non abbiamo una norma che ci permetta di perseguire adeguatamente i comportamenti che sono stati messi in atto».