“Il maltrattamento inflitto è di tale intensità che può essere considerato come tortura”. Questa cauta, diplomatica, ma chiara, affermazione conclude spesso la descrizione di gravissimi episodi di maltrattamento, riportati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura nei suoi Rapporti. Potrebbe essere posta al termine della requisitoria della pubblica accusa al processo su quanto avvenuto a Bolzaneto.
Perché rispecchia fedelmente non solo la gravità dei fatti descritti e delle responsabilità di chi li ha commessi o coperti o ha adeguatamente vigilato, ma anche il pensiero stesso del pubblico ministero che è dovuto ricorrere all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, non avendo a disposizione nel codice penale italiano una figura di reato che interpretasse quanto avvenuto e stabilisse un’adeguata pena. Raramente frasi di questo genere riguardano stati con profonde tradizioni democratiche e altrettanto raramente tali affermazioni giungono con un ritardo tale da avere soltanto la funzione di enunciazione e memoria, piuttosto che quella di sanzionare effettivamente i responsabili. Eppure questo è il quadro che ci si presenta oggi, in Italia, anche se tra molta distrazione di forze politiche e stampa.
Il divieto assoluto di simili trattamenti non è mitigato nelle Convenzioni internazionali da alcuna situazione di eccezione o emergenza: è, nel linguaggio del diritto internazionale, un divieto non derogabile. Ne deriva un obbligo per gli stati in tre direzioni: prevenire, reprimere e compensare le vittime.
Nelle prime due direzioni lo stato italiano ha già fallito perché giunge alla conclusione di un processo dopo che sono stati già inviati due messaggi gravi alla collettività e ai molti onesti operatori delle forze dell’ordine. Il primo è quello di non aver fatto una riflessione su come e perché tutto ciò sia potuto avvenire, non come comportamento di un singolo operatore o pochissimi altri, ma come modalità detentiva all’interno di una struttura predisposta proprio per affrontare i possibili problemi di quei giorni: quali ordini siano stati dati, quali coperture direttamente o indirettamente offerte, quali responsabilità politiche, quantomeno omissive, ci siano state. Senza tale riflessione non è possibile parlare di prevenzione rispetto alla possibilità che simili fatti si ripetano. Il secondo è quello di non aver inviato un chiaro messaggio di intollerabilità di tali comportamenti, all’interno di forze che hanno responsabilità costituzionalmente definite, attraverso quantomeno il rifiuto di qualsiasi promozione discrezionale di persone imputate. Al contrario, persone responsabili di fatti gravissimi sono state promosse, hanno avuto nuovi incarichi rilevanti; ne risulta un messaggio di impunità, ben più forte di quello che giungerà da una sentenza penale destinata alla prescrizione.
Resta la compensazione delle vittime: quella materiale sarà definita in sede giudiziaria, quella morale è possibile soltanto attraverso una chiara individuazione di tutti i livelli di responsabilità, non solo penale, ma anche politica; un’asserzione che soltanto una commissione d’inchiesta può dare. Questa è l’unica via per non venir meno anche al terzo degli obblighi che pendono sulla responsabilità di ogni stato che ratifica la sua volontà di combattere la tortura e i trattamenti contrari al senso di umanità. Ma, proprio questa è stata la via trascurata dalle assemblee parlamentari che da allora si sono succedute. In ciò rivelando di non aver compiuto alcun passo per prevenire il possibile ripetersi di tali inaccettabili eventi.
Mauro Palma, 13 marzo 2008