Marzo 2008
Undici anni dopo. Le vittime censite nel mese di marzo da Fortress Europe sono 26, ma i dispersi in mare nello stesso periodo potrebbero essere decine e decine. Vittime di almeno sei naufragi fantasma di cui il mare ha restituito soltanto alcuni corpi. Come i quattro cadaveri ripescati nel Sahara Occidentale e i dieci in Turchia. Come i sette corpi recuperati tra le spiagge algerine di Mostaganem e le coste andaluse di Cadiz. Due morti invece li hanno trovati a bordo di una piroga arrivata alle Canarie, dove gli arrivi sono in lieve aumento: 1.702 persone nel primo trimestre 2008 contro le 1.425 dello stesso periodo nel 2007. Arrivi in aumento anche a Lampedusa, dove nel silenzio pre-elettorale, sono sbarcati più di 3.000 immigrati solo nelle prime tre settimane di marzo. Sempre più caldo invece il fronte egiziano. Ancora morti ammazzati sotto gli spari della polizia di frontiera egiziana lungo il confine con Israele, lungo la penisola del Sinai. Le tre vittime di marzo portano a dieci gli omicidi commessi dall’inizio dell’anno. Eritrei, ivoriani, sudanesi. La pressione è altissima, e da Tel Aviv, Olmert dà carta bianca alla polvere da sparo, chiedendo al Cairo di “prevenire nuove infiltrazioni” di quello che definisce uno “tsunami”, ovviamente senza spendere una sola parola sul sangue versato. E all’elenco delle vittime andrebbero aggiunti anche i nomi di Rachid Abdelsalam e Ahmad Mahmud El Sabah, morti nel centro di detenzione per immigrati di Rotterdam, in Olanda, per omissione di cure. I nomi degli almeno 128 somali morti annegati al largo dello Yemen invece non li conoscerà mai nessuno. Le vittime dell’esodo somalo sulle rotte del Golfo di Aden sono migliaia ogni anno. Troppe per fare notizia in un giornalismo che soffre di assuefazione.
Harragas. Kamal ha 39 anni ed è nato a Sidi Salem, una frazione di Annaba. Ha otto tatuaggi. Sono otto punti di inchiostro blu sul dorso della prima falange di indice, medio anulare e mignolo delle due mani callose. Ogni coppia di punti ricorda un anno trascorso tra i parà dell’esercito algerino. Lo incontro di fronte al museo Sant’Eulalia. Cagliari. A pochi passi dalla moschea, dove ogni venerdì un quadrato di uomini si piegano sui tappeti tra le macchine parcheggiate e i passanti, in direzione della città santa di Mecca. La stessa moschea che da un anno aiuta i migranti che sbarcano in Sardegna. Un’ospitalità e un piatto caldo, prima che si imbarchino sul traghetto per Civitavecchia per proseguire verso Napoli, Roma o Marsiglia. Kamal, un anno fa era a Tunisi. Ci viveva da cinque anni. Lavorava come falegname. All’inizio del 2007 venne a sapere dai giornali che per la prima volta alcuni algerini erano sbarcati in Europa partendo da Annaba, Sidi Salem, Oued Bukrat, El Bettah. Navigavano verso la Sardegna perchè quel tratto di mare era poco pattugliato. Decise di tornare in Algeria. Ma non per restare. A Sidi Salem conosceva tutti. Presto trovò presto il contatto giusto. Partire costava 10.000 dinar, circa mille euro. Ma non sarebbe andato da solo. Telefonò a un caro amico, che lo raggiunse immediatamente, insieme alla moglie. Quindici giorni dopo, una notte di maggio, prendevano il largo da una spiaggia deserta di Sidi Salem. Quattro barche, con otto, nove passeggeri a bordo. Ma il mare era grosso e dopo alcune ore i pescatori decisero di invertire la rotta per salvarsi la vita. Si rifecero vivi tre mesi dopo. Stesso biglietto, ripartirono il 28 agosto. Kamal ricorda il mal di mare, la fortissima nausea. Ricorda l’ansia delle ore trascorse a motore spento, nella notte, mentre all’orizzonte sfilavano le luci di una nave militare di pattugliamento. Poi, dopo un attimo di silenzio, accenna a quei corpi a galla tra le onde, in alto mare. Una decina. Ci passarono in mezzo. Algerini come lui. Annegati sulla stessa rotta che l’ha portato a Carbonia. Oggi Kamal lavora in una falegnameria. Gli danno 300 euro al mese. Di più non può chiedere, non ha i documenti. E comunque non è male. In Algeria non avrebbe guadagnato più di 100 euro. Per adesso l’affitto non lo paga. Vive in una casa abbandonata, a Cagliari. I soldi gli serviranno per sposarsi. Un matrimonio non costa meno di 5.000 euro. Il padre? Sapeva tutto. Quando gli ha detto che avrebbe bruciato le frontiere, non gli ha detto niente. Le parole sono diventate inutili contro la rabbia degli harragas.
Partire o morire. La rabbia trabocca insieme al dolore nelle canzoni in arabo dei rapper algerini che raccontano le gesta e i sogni degli harragas, di chi brucia le frontiere. Sono veri e propri tormentoni. “Vedono questo paese come un carcere, come una tomba. Si dice: non c’è fortuna, non c’è niente, solo odio”. Partono i poveri ma anche i diplomati e i funzionari. Perchè “la speranza è lontana al di là del mare”, ogni giorno qualcuno ci prova “soprattutto quando vede i suoi amici d’estate che tornano dall’Europa. Erano qui senza niente adesso tornano e stanno bene. L’Europa gli ha offerto il lavoro, la casa e la macchina. E tu resti qui depresso e non puoi fare niente. Ti raccontano della loro vita lì ... e ti deprimi di più”. Il viaggio è pericoloso, i giornali raccontano dei detenuti in Libia e in Tunisia, le vittime dall’inizio del 2008 sono già 13, ma bisogna avere coraggio: “La mia casa è lontana, la mia barca è piccola. Pregate dio e non scordatevi di me. Io da solo in mezzo al mare, perso e straniero, ho paura e ho freddo”. Potete ascoltare questi due pezzi nel documentario “Gli harragas di Annaba”, ma l’emigrazione è anche al centro della famosa “Ya Lebhar” di Lofti Double Kanon, con un video molto duro sui viaggi in mare, e di “Partir Loin” di Reda Talieni. E anche in Senegal la musica denuncia una generazione pronta a morire in mare, stanca degli scandali dei propri politici. Il singolo si chiama Sunugaal, di Awadi e Kirikou, è in wolof e tradotto fa più o meno così: “Tutte le vostre belle parole, tutte le vostre promesse... Che è stato del lavoro che ci avevate promesso?... Non ci avevate promesso di toglierci dalla miseria? Qua ogni giorno va peggio... Sono le nostre piroghe a affondare e sono i nostri ragazzi a morire”.
Processo alla Guardia Civil. Tentavano di raggiungere Ceuta a nuoto. Uno di loro morì annegato. Era il 26 settembre 2007. Sei mesi dopo, la verità inizia ad emergere. Quella notte una motovedetta della Guardia Civil intercettò in mare tre uomini e una donna che dalla costa marocchina nuotavano verso Ceuta. I tre agenti li presero a bordo e li riportarono verso la costa marocchina. Quindi li buttarono in acqua, bucando i salvagente che avevano con un coltello, per assicurarsi che non potessero ritentare la traversata. Laucling Sonko, classe 1979, senegalese, non sapeva nuotare. Ed è morto sotto i loro occhi. Oggi è sepolto nel cimitero di Santa Catalina, a Ceuta. La sorella e il cognato lo aspettavano a Vícar, in provincia di Almería. Adesso chiedono giustizia.
Robert Dziekanski. Qualcuno ricorderà questo nome. Era il 14 ottobre 2007 e questo cittadino polacco di 40 anni veniva ammazzato all’aeroporto di Vancouver da una scarica elettrica sparata dai taser in dotazione degli agenti di sicurezza. Il video ha fatto il giro del mondo. E per qualche giorno si è tornati a parlare dei rischi del taser. Una pistola elettrica in dotazione alle forze di polizia nordamericane, capace di scaricare fino a 50.000 volt a distanza di oltre dieci metri. Un’arma che secondo un rapporto di Amnesty ha già causato 16 morti in Canada e addirittura 280 negli Usa, dal 2001 ad oggi. Dati di cui non ha tenuto conto il parlamento svizzero, che il 18 marzo
Tra l'incudine e il martello. L’80% dei richiedenti asilo politico iracheni in Germania, Svezia e Cipro viene riconosciuto come rifugiato politico. In Grecia la percentuale è dello 0%. Nessun errore di battitura. Zero per cento. I dati sono dell’European Council on Refugees and Exiles (Ecre), che ha chiesto all’Unione europea di bloccare le riammissioni in Grecia dei richiedenti asilo secondo il Regolamento Dublino II. Norvegia e Svezia lo hanno già fatto.
Ospiti indesiderati. “Le condizioni erano pessime, e dalla disperazione un uomo iniziò a picchiare violentemente la testa contro il muro. – racconta un mauritano intervistato dalla ong – La polizia iniziò a picchiarlo davanti a tutti fino a farlo svenire. Lo menavano con i manganelli e lo prendevano a calci”. È soltanto una delle 40 testimonianze raccolte dal rapporto sulla Turchia “Unwelcome Guests: The Detention of Refugees in Turkey’s Foreigners Guesthouses”. Si tratta del primo rapporto completo su una situazione da anni conosciuta e al tempo stesso ignorata.
La foglia di fico. È stato inaugurato il 12 marzo a Tripoli. Sarà un centro di assistenza per gli immigrati di transito in Libia e diretti in Europa. “Gli immigrati potranno informarsi sui possibili pericoli dell’emigrazione” ha dichiarato Laurence Hart, che in Libia guida la missione dell’Oim che si occupa perlopiù di rimpatrio assistito e volontario, ma anche di ricerca, formazione della polizia, “gestione delle frontiere e contrasto della tratta”. Due settimane prima, il 29 febbraio 2008, il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) firmava un protocollo d’intesa con la ong libica International organisation for peace, care and relief (Iopcr), che nel dicembre scorso aveva ricevuto a Misratah una delegazione italiana di cui faceva parte il direttore del Cir, Christopher Hein. Obiettivo della collaborazione è il miglioramento delle condizioni dei rifugiati in Libia. Per adesso siamo solo all’inizio, nessun campo di detenzione è gestito da ong italiane. Ma la questione della cooperazione in Libia già solleva diverse criticità. Da un lato rappresenta un’importante occasione per la tutela dei diritti dei migranti. E il reinsediamento dei 40 rifugiati eritrei detenuti a Misratah e accolti dalla provincia di Rieti grazie ad un progetto Acnur, Cir, Oim e Ministero dell"Interno lo dimostra. Dall’altro rappresenta un rischio di normalizzazione dell’illegalità. Perchè a Misratah gli altri 600 rifugiati eritrei sono detenuti da due anni nel silenzio di Acnur e Oim. Perchè da Kufrah altri 200 eritrei sono stati rimpatriati a febbraio. Perchè ogni anno 60.000 tra migranti e rifugiati sono arrestati in Libia e deportati nell’indifferenza della società civile, della stampa e della politica. Un'indifferenza che si fa complice di un’Europa che ammette, finanziandoli, la tortura e i trattamenti inumani e degradanti come strumento ordinario di lotta all'immigrazione.