Free cookie consent management tool by TermsFeed Policy Generator I Cpta: diritti negati o la negazione del diritto?, di F.V.Paleologo, OTT.'05

I Cpta: diritti negati o la negazione del diritto?, di F.V.Paleologo, OTT.'05

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I centri di permanenza temporanea: diritti negati o la negazione del diritto?

a cura di Fulvio Vassallo Paleologo

1. A partire dal 1998, con l’introduzione dei centri di permanenza temporanea e di assistenza (CPTA) per gli immigrati irregolari in attesa di espulsione, si è diffuso anche in Italia un diritto speciale che sanziona una violazione amministrativa con una forma di detenzione caratterizzata dalla discrezionalità dell’autorità di polizia, ben oltre i casi eccezionali ed urgenti in cui questo è consentito in base all’art. 13 della Costituzione italiana.

In assenza di un’espressa previsione di reato la semplice presenza irregolare sul territorio o l’ingresso clandestino sono sanzionati con una misura amministrativa simile al domicilio obbligato, ma che nella sostanza risulta ancora più limitativa della libertà personale.
La stessa misura viene attuata indifferentemente nei confronti degli immigrati che escono dal carcere dopo la espiazione della pena o la liberazione anticipata, o ancora per il venir meno delle esigenze cautelari, se in carcerazione preventiva, o perché assolti in quanto i fatti contestati non sussistevano. Per tutti, senza alcuna considerazione della condizione personale dei singoli, sulla base della semplice mancanza di un valido permesso di soggiorno, in qualche caso perduto proprio a seguito di una ingiusta carcerazione preventiva, si dispone l’espulsione e la misura del trattenimento in un centro di permanenza temporanea al fine di eseguire l’accompagnamento forzato in frontiera in tutti i casi nei quali la misura dell’allontanamento non possa effettuarsi immediatamente.
Già nei lavori preparatori della legge Turco- Napolitano, al tempo dell’istituzione di queste strutture, si richiamava l’art. 5 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, che consentirebbe al legislatore nazionale l’adozione di misure limitative della libertà personale "se si tratta dell’arresto o della detenzione legali di una persona per impedirle di penetrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione”.
In realtà non sembra possibile qualificare la situazione di trattenimento nei centri di permanenza temporanea come un caso di “arresto o detenzione legale” perché il termine “legale” dovrebbe significare una piena conformità a tutte le leggi di un determinato ordinamento giuridico, senza trascurare il dettato costituzionale, e tale conformità alla legge fondamentale deve escludersi nel caso delle norme ed ai regolamentiche nel tempo hanno previsto e regolato i CPTA, affidandoli per intero alla discrezionalità amministrativa, e dunque alle decisioni di Prefetti e Questori.
La conformazione della misura detentiva sulla base della discrezionalità amministrativa configura un aperto contrasto con gli articoli 3 (parità di trattamento), 13 (obbligo di controllo giurisdizionale sui provvedimenti amministrativi limitativi della libertà personale ed eccezionalità di tali provvedimenti) e 24 (diritto di difesa per tutti, senza possibilità di differenze tra cittadini e stranieri) della Costituzione italiana.

Le norme regolamentari e le prassi amministrative sono andate ancora oltre e sono numerosi i casi in cui sono stati violati la riserva di legge (solo la legge può stabilire la condizione giuridica dello straniero) ed il diritto di asilo, riconosciuti dall’art. 10 della Costituzione, rispettivamente al secondo ed al terzo comma. Casi che la giurisprudenza ha rilevato con grande impegno, attirandosi per questo le ire dei rappresentanti dell’esecutivo che sono giunti ad imputare proprio alla magistratura la volontà di “sabotare” le leggi sull’immigrazione.
Malgrado la Corte costituzionale abbia sempre “salvato” i centri di permanenza temporanea, nelle sue pronunce vengono indicate modalità di applicazione delle norme, in senso conforme al dato costituzionale, che nella generalità dei casi vengono ancora oggi disattese. Le procedure amministrative relative al trattenimento rimangono infatti prive di una effettiva sede di ricorso, dal momento che, dopo l’espulsione o il respingimento, degli immigrati trattenuti nei CPTA possono essere accompagnati in frontiera anche in pendenza del ricorso giurisdizionale.

2. Sulla base di una diffusa giustificazione, fondata anche sugli obblighi di esecuzione degli accordi di Schengen, che impongono agli stati aderenti di dare effettiva esecuzione ai provvedimenti di respingimento e di espulsione, si è alimentata una spirale securitaria, come se i centri costituissero un efficace strumento di contrasto della clandestinità e della criminalità, associata sempre più spesso, anche dalle forze di governo, al diffondersi della condizione di irregolarità dei migranti.
In questa direzione hanno dato il loro contributo, seppure in maniera diversa, tutti i governi che si sono succeduti dal 1997 ad oggi.
Ancora recentemente, di fronte alle richieste delle associazioni e di un vasto fronte di amministratori locali, che sollecitano la chiusura dei centri di permanenza temporanea, si replica da parte di autorevoli rappresentanti dell’attuale opposizione, l’on. Livia Turco, responsabile welfare per i DS e l’on. Giannicola Sinisi, responsabile immigrazione per la Margherita, che i CPTA non sono eliminabili, e che bisognerebbe soltanto graduare i requisiti per il trattenimento, riservando queste strutture "a coloro che sulla base di un provvedimento del prefetto, siano ritenuti pericolosi, per i quali le altre misure siano ritenute inadeguate, ovvero che non hanno osservato le misure di minore afflittività, ovvero hanno violato le prescrizioni impostegli. Si paventa altresì che la chiusura dei CPTA comporterebbe addirittura il ritorno alla legge Martelli del 1990" ed alla assolutamente inefficace e puramente simbolica intimazione a lasciare il territorio dello Stato”.
Ma si può legittimamente dubitare della fondatezza di queste affermazioni, considerando la cifra ormai stabile di stranieri trattenuti nei CPT, una percentuale assai modesta rispetto a quelli comunque residenti sul nostro territorio in condizioni di irregolarità, ed alla percentuale ancora più modesta di immigrati (attorno alle 10.000-12.000 persone, non oltre il 50 per cento degli immigrati rinchiusi annualmente nei CPTA), che ogni anno vengono “accompagnati” effettivamente in frontiera attraverso i centri di permanenza temporanea. Numeri assai modesti rispetto alla consistenza della presenza di migranti in situazione irregolare, come emerge dai dati delle regolarizzazioni o delle richieste presentate da immigrati già residenti in Italia, che cercano di legalizzare la loro posizione con i decreti flussi annuali.
Sulla base di questi dati si può stimare che, in assenza di una legge organica sul diritto di asilo e di possibilità effettive di ingresso legale per ricerca di lavoro, il numero degli immigrati presenti in Italia in condizione di irregolarità aumenti annualmente di almeno 150.000 unità. Se dunque si sostiene che i centri di permanenza temporanea contribuiscono a rendere “effettive” le misure di accompagnamento forzato in frontiera si viene immediatamente smentiti dalle cifre.

3. Non sembra neppure possibile addurre come giustificazione il richiamo ad (inesistenti) obblighi di carattere internazionale o comunitario.
In realtà gli accordi di Schengen non imponevano affatto una aberrazione giuridica come i CPTA, in quanto si limitavano alla prescrizione che le espulsioni fossero effettivamente eseguite.
Obiettivo perseguibile anche nel rispetto delle garanzie fondamentali della persona e del diritto di asilo, nell’ambito di procedimenti giurisdizionali, così come imposto dall’art. 13 della Costituzione, ed entro gli stessi termini dettati da quella norma (al massimo 96 ore), a condizione di adottare procedure e strutture idonee al risultato di effettuare un limitato numero di espulsioni: le attività di polizia consistenti nell’allontanamento forzato degli immigrati potrebbero risultare più efficaci se le espulsioni (ed i respingimenti) fossero comminate in casi determinati rigidamente per legge, per ragioni oggettivamente accertate dal giudice (ad esempio per l’accertamento di una grave responsabilità penale) e non per il semplice ingresso clandestino, o in base valutazioni meramente discrezionali dell’autorità di polizia (una discrezionalità spesso priva di motivazione come nel caso del riconoscimento della “presunta” pericolosità sociale).
Non si è peraltro riscontrata alcuna valenza dei CPTA nel contrasto della criminalità nei territori nei quali sono istituiti, sia per l’elevata percentuale dei migranti rimessi in libertà alla scadenza dei termini, sia per la ubicazione dei centri, in regioni prevalentemente caratterizzate dalla criminalità mafiosa, come la Puglia e la Sicilia, regioni nelle quali i migranti irregolari sono più spesso vittime che compartecipi delle organizzazioni criminali.
Anche recenti fatti di cronaca, come l’omicidio di un commerciante durante una rapina a Giardini, per opera di un gruppo di rom residenti in prevalenza ad Agrigento, dimostrano la scarsa efficacia delle misure di contrasto della criminalità organizzata quando si riducono alla applicazione dei provvedimenti di espulsione (talvolta in alternativa alla detenzione) e di trattenimento nei centri di permanenza.
Deve invece essere sempre salvaguardato il principio di effettività della sanzione penale, principio messo in discussione proprio dalla frettolosa esecuzione delle misure di trattenimento e di espulsione.

4. Se è vero, come è vero, che oltre il 70% degli immigrati oggi regolari in Italia è entrata (e continuerà ad entrare) irregolarmente, e se si rileva poi, come periodicamente intervengano regolarizzazioni o sanatorie camuffate (come i cd. decreti flussi), si può affermare che le misure di contrasto dell’immigrazione clandestina basate sui centri di detenzione amministrativa non hanno affatto arginato il fenomeno ma sono servite soltanto a creare le condizioni di esclusione e di emarginazione, per uno sfruttamento ancora più feroce dei lavoratori immigrati, ricattati dai datori di lavoro con la minaccia della denuncia, privati spesso dei documenti, considerati alla stregua di non-persone.
Anche i mass-media, in prevalenza, piuttosto che considerare gli immigrati irregolari come vittime di sfruttamento, hanno contribuito ad accrescere la stigmatizzazione nei loro confronti, considerando tutti i “clandestini” prima come criminali, adesso come possibili terroristi.
Le leggi e le prassi amministrative si sono orientate nella stessa direzione, mentre i controlli di legalità esercitati dalla magistratura sono stati attenuati, svuotati di effetti pratici, avvertiti con insofferenza quando giungevano a censurare l’operato dell’autorità amministrativa. Molti magistrati sono stati sottoposti ad ispezioni o a procedimenti disciplinari perché avevano osato applicare le leggi in materia di immigrazione in senso conforme alla Costituzione ed ai Trattati internazionali, disobbedendo alle linee di politica giudiziaria dettate dal governo, ed in particolare dal Ministro degli interni di concerto con il Ministro della giustizia.
Tutti i processi più importanti sono “vigilati” con maggiore o minore discrezione dai rappresentanti del potere esecutivo. L’autonomia e l’indipendenza della magistratura sono sempre più a rischio.

5. Già la Corte Costituzionale nel 2001 aveva segnalato la necessità di interpretare la normativa in materia di trattenimento dei migranti irregolari allora vigente in senso conforme alla Costituzione. Per effetto di questa pronuncia i magistrati di Milano che avevano sollevato la questione di costituzionalità delle disposizioni relative all’espulsione con accompagnamento forzato in frontiera riuscirono ad essere assolti nel procedimento disciplinare che era stato imbastito contro di loro per iniziativa del Ministro della Giustizia.
Secondo la sentenza n. 105 del 2001 "il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea ed assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’art. 13 della Costituzione".
Anche successive decisioni degli organi giurisdizionali che confermavano tale orientamento ed annullavano centinaia di provvedimenti di espulsione o di trattenimento adottati senza rispettare le prescrizioni di legge suscitavano una violenta reazione da parte delle forze di governo che imputavano ad una parte della magistratura una applicazione eccessivamente “garantista” delle norme in vigore.
Gravissimi esempi, questi, di come il potere esecutivo (già in quel periodo) intendeva invadere l’ambito della giurisdizione, sferrando un pesante attacco allo stato di diritto e ad una delle norme più importanti della Costituzione repubblicana quell’art. 13 che i Costituenti vollero pensando agli arbitri di polizia commessi durante il periodo fascista..
Questi attacchi si sono intensificati dopo l’entrata in vigore della legge Bossi-Fini nel 2002, ed oggi si è giunti al linciaggio politico e morale di quei magistrati che, applicando le leggi in senso conforme ai Tratati internazionali ed alla Costituzione italiana, osano rimettere in libertà immigrati rinchiusi nei centri di detenzione amministrativa.

6. La disciplina dei centri di permanenza temporanea ed assistenza, contenuta nella legge Turco-Napolitano del 1998 e nel relativo regolamento di attuazione del 1999, è rimasta sostanzialmente immutata con la legge Bossi-Fini che ha però raddoppiato il periodo di permanenza massima all’interno di queste strutture. In realtà la situazione è andata peggiorando progressivamente perché non è stata più applicata la “Carta dei diritti e dei doveri” degli immigrati trattenuti nei centri, documento approvato con una direttiva del precedente governo nell’estate del 2000, dopo il tragico rogo del centro Serraino Vulpitta di Trapani (a causa del quale morirono arsi vivi tre immigrati mentre altri tre persero la vita in ospedale dopo mesi di atroci sofferenze).
Ancora oggi agli immigrati trattenuti nei centri non viene fornita alcuna informazione, neppure sulla possibilità di chiedere asilo, e si nega, non solo alle associazioni, ma persino alle rappresentanze parlamentari in visita in queste strutture, la possibilità di conoscere la destinazione individuale degli immigrati in via di espulsione. Spesso si nega ai parlamentari in visita la possibilità di incontrare tutti gli immigrati presenti nelle strutture, con escamotage diversi, soprattutto nel caso di donne, minori, potenziali richiedenti asilo, come è successo nel corso dell’ultima visita di una delegazione parlamentare nel CPT di Ragusa..
Anche l’accesso degli avvocati è soggetto a forti limitazioni e difficoltà burocratiche di ogni genere vengono frapposte alla raccolta ed alla autentica delle firme per il conferimento dei mandati difensivi

7. Appare assai grave l’utilizzazione surrettizia dei centri di permanenza temporanea “ed assistenza” (da qui la definizione di CPTA) come strutture nelle quali rinchiudere gli immigrati per necessità di “soccorso”, o nelle more della formalizzazione della richiesta di asilo, in qualche caso anche dopo la presentazione della stessa istanza.
La nuova disciplina delle procedure per il riconoscimento dell’asilo o della protezione umanitaria, entrata in vigore nell’aprile del 2005 con la pubblicazione del regolamento di attuazione contraddice le disposizioni comunitarie (in particolare la direttiva 2003/9/CE, che afferma il principio della libertà di circolazione nelle more della procedura) adesso attuata, con notevoli difformità, anche nel nostro ordinamento, elevando a principio generale il trattenimento dei richiedenti asilo ben oltre i tempi necessari per la prima identificazione e l’ammissione alla procedura.
La carenza di posti nei centri di identificazione, o le esigenze di indagine connesse alla individuazione degli scafisti comportano un prolungamento delle misure di trattenimento e la utilizzazione dei centri di permanenza temporanea come se questi fossero dei centri di identificazione, e quindi senza le (modeste) garanzie procedurali previste per i CPT.
Nei fatti, in contrasto con la lettera della legge Bossi-Fini, oltre che con le direttive comunitarie, il trattenimento dei richiedenti asilo nei centri di detenzione amministrativa si protrae per giorni in base a criteri meramente discrezionali dell’autorità di polizia, in assenza di provvedimenti e di convalida da parte dell’autorità giudiziarie, al punto che in caso di diniego, per asserita manifesta infondatezza della domanda, possono essere attivate le procedure di respingimento (spesso collettivo) senza alcuna garanzia di un effettivo ricorso giurisdizionale.
Alla incostituzionalità delle disposizioni normative, peraltro in contrasto con le direttive comunitarie, si aggiungono prassi amministrative che a volte sconfinano nel vero e proprio arbitrio. La vicenda delle espulsioni dei naufraghi salvati dalla nave Cap Anamur nell’state del 2004 è ancora aperta, e saranno diverse sentenze dei giudici e delle Corti Europee ad accertare quanto realmente accaduto all’interno del CPT modello di Caltanissetta, e poi a ponte Galeria a Roma. E’ questa la ragione per la quale i centri di detenzione amministrativa, ed alcuni in particolare come quello di Agrigento (adesso chiuso) e di Ragusa, vengono praticamente “secretati”, perché ogni visita di delegazioni indipendenti scoprirebbe (come in effetti scopre) prassi contrarie alla legge ed ai più elementari principi di rispetto della dignità umana. Molto spesso si sono rinvenuti minori, donne in stato di gravidanza, persone che avevano manifestato intenzione di chiedere asilo, tutti soggetti che per legge non avrebbero dovuto essere trattenuti in un CPTA.
L’unico modo per difendere i diritti dei migranti rimane la denuncia pubblica dopo le ispezioni effettuate dai parlamentari, gli unici soggetti indipendenti ammessi a visitare questi centri.
La situazione dei centri di permanenza temporanea è ancora peggiorata dopo l’entrata in vigore della legge Bossi-Fini Mentre la proroga dei provvedimenti di trattenimento (da trenta a sessanta giorni) avrebbe dovuto costituire una eccezione, nella pratica si è rilevata come una misura amministrativa automatica, adottata anche in assenza di una specifica motivazione, sulla base della impossibilità di un tempestivo rimpatrio, ancora una volta in violazione di norme di legge e di principi costituzionali.

8. Le ridotte garanzie di difesa e la discrezionalità amministrativa nella gestione dei centri di permanenza temporanea e dei nuovi centri di identificazione (strutture queste ultime che comunque consentono una limitazione della libertà personale come rilevato nel 2004 dal Consiglio di Stato), in contrasto, con i principi a tutela della persona sanciti dalla nostra Carta Costituzionale, e con numerose convenzioni internazionali (a partire dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che viene spesso richiamata, all’art. 5, proprio per giustificare la introduzione di queste strutture detentive), rendono la permanenza in questi luoghi più penosa e spesso più pericolosa della stessa detenzione carceraria.
Queste circostanze hanno prodotto frequenti interventi della giurisprudenza che ha criticato duramente, annullando i relativi provvedimenti, sia i presupposti del trattenimento (il provvedimento di respingimento o di espulsione), che le modalità concrete di attuazione della misura restrittiva della libertà personale Con la legge 271 del 2004 si è cercato di limitare ulteriormente il ruolo di controlli dell’autorità giurisdizionale, trasferendo la competenza per la convalida dei provvedimenti di trattenimento ai giudici di pace, stabilendo che le convalide vengano effettuate all’interno dei CPT, alla presenza (quasi sempre silente) del difensore d’ufficio, stabilendo la competenza del giudice di pace del luogo del CPT anche in materia di espulsione e respingimento, anche se questi provvedimenti sono adottati da autorità amministrative lontane migliaia di chilometri.
Nei primi mesi di applicazione della nuova normativa si può tuttavia rilevare una sorprendente capacità di tenuta di una parte dei giudici di pace rispetto alle pressioni subite dalle autorità di polizia per effettuare le convalide in modo meramente “cartaceo” e sono sempre più numerose le decisioni che negano la convalida dei provvedimenti di trattenimento.
Alcuni giudici di pace hanno anche sollevato la questione di incostituzionalità della normativa che assegna loro la convalida di provvedimenti restrittivi della libertà personale, provvedimenti che avrebbero dovuto restare di competenza dei magistrati togati, maggiormente garantiti dalla normativa dell’ordinamento giudiziario (e dalla Costituzione) in materia di indipendenza.
Appare in ogni caso sempre più grave la violazione del diritto di difesa degli immigrati trattenuti nei centri di detenzione amministrativa, una frattura irreversibile con il sistema delle garanzie dettato dall’art. 24 della Costituzione, la base per un diritto speciale applicabile solo agli stranieri irregolari (in realtà a tutti gli stranieri, a causa dell’estrema facilità con la quale oggi si può perdere il permesso di soggiorno).
Spesso all’immigrato trattenuto nel centro non si comunica neppure la possibilità di nominare un difensore di fiducia o di accedere alla procedura di asilo. Nei centri mancano gli interpreti e la traduzione dei provvedimenti è tanto sintetica da risultare spesso incomprensibile. In molti casi le delegazioni parlamentari hanno rilevato la mancata consegna dei provvedimenti amministrativi di trattenimento e delle relative convalide. Non si contano più i casi di percosse e violenze di ogni genere perpetrate dalle forze di polizia ai danni degli immigrati trattenuti nei centri, non appena si sgretola il muro di omertà costruito dalle forze dell’ordine e dalle associazioni che cogestiscono queste strutture, basti pensare al caso del Regina pacis di Lecce, e da ultimo un procedimento penale è stato aperto a Ragusa dopo la denuncia di una immigrata cinese.
In troppi casi le donne in trattenute nei centri di permanenza temporanea vengono “trattate” da personale maschile, con gravi rischi di violenza e pressioni di ogni genere.

9. Si sono affermate dunque una disciplina legislativa e prassi amministrative che propongono l’allontanamento forzato dello straniero irregolare come una panacea per tutti i mali, adesso anche per contrastare la minaccia terroristica, quando invece si tratta di misure di polizia tanto discrezionali da risultare spesso arbitrarie, quando la Costituzione impone in questa materia la riserva di legge ed il controllo effettivo dell’autorità giudiziaria. I CPTA, soprattutto in Sicilia, sono stati spesso funzionali alla esecuzione delle misure di respingimento collettivo, che alimentano tra gli frustrazione e risentimento, e non offrono neppure garanzie di sicurezza ai cittadini.
Se tra gli immigrati espulsi o respinti sommariamente, senza una vera identificazione e senza un effettivo controllo giurisdizionale vi fossero veramente soggetti pericolosi per la sicurezza nazionale, questi, una volta accompagnati in frontiera, soprattutto se appartenenti ad organizzazioni criminali o terroristiche, possono facilmente ritornare ad operare in assoluta libertà, nel loro paese o in altri paesi di transito, su rotte che mutano in continuazione, muovendosi come pesci nel mare della clandestinità, di una clandestinità voluta ed utilizzata come spauracchio sociale e come strumento di sfruttamento dei lavoratori migranti e di tutti coloro che si ritrovano in una situazione socialmente più debole, come le donne, i minori, i precari.

10 . L’unica garanzia di sicurezza, per una società democratica, sarebbe costituita invece dall’ adozione di procedure che comportino comunque una identificazione certa dei cd. “clandestini”, favorendo la legalizzazione permanente (e dunque la emersione dalla clandestinità anche in seguito ad autodenuncia) di quanti si trovano già nel nostro territorio e possono vantare una situazione di integrazione sociale (ad esempio una residenza stabile ed un rapporto di lavoro), restando dunque nell’ambito delle garanzie proprie dello stato democratico, dello stato di diritto.
Una identificazione certa non legata ad una situazione detentiva, che spesso impone la dichiarazione di false generalità, sarebbe il metodo più efficace anche per distinguere i veri richiedenti asilo da quanti non lo sono, ma rimangono comunque vittime di un sistema perverso che nega ai migranti provenienti da sud non solo il riconoscimento del diritto di asilo ma una effettiva possibilità di ingresso per lavoro, impedendo in molti casi anche il ricongiungimento familiare o l’ingresso per motivi di salute o studio.

11. A fronte delle statistiche sulla percentuale di immigrati effettivamente allontanati tramite i centri di permanenza temporanea (non oltre il 50 per cento in media), queste strutture enormemente dispendiose, che sono costate alla collettività centinaia di milioni di euro, come rilevato anche nelle relazioni annuali della Corte dei Conti, dimostrano il fallimento delle politiche espulsive basate sul trattenimento forzato.
I centri di permanenza temporanea hanno funzionato da fattore di esclusione sociale, più che di allontanamento effettivo, recidendo legami di integrazione già instaurati da anni, o fungendo da luogo di transito per richiedenti asilo ai quali veniva negato l’accesso alla procedura o il riconoscimento dello status, ma che si riteneva più comodo rimettere in libertà con un ordine in tasca per l’uscita dal territorio entro 5 giorni dal rilascio: un ordine che non si può certo eseguire in assenza di mezzi e di documenti per l’espatrio, quei documenti che neppure lo Stato riesce a ricostruire.
Sarà adesso anecessario monitorare la portata dei nuovi regolamenti di attuazione della legge Bossi- Fini, entrato in vigore nel corso del 2005. Questi regolamenti – emanati a quasi tre anni dall’approvazione della legge 189 del 2002- sono stati promulgati malgrado la forte opposizione degli enti locali, nonostante la mancata copertura finanziaria, rilevata da parte della Corte dei conti e del Consiglio di Stato.
Le comunità locali, le associazioni degli immigrati, e dei cittadini impegnati nella difesa dei diritti umani, dovranno battersi con tutte le energie per la chiusura dei Cpt esistenti e per impedire la apertura di nuovi centri di detenzione, da Gradisca di Isonzo in Friuli a Porto Empedocle in Sicilia. E’ in gioco l’agibilità democratica del territorio di fronte al rischio di una militarizzazione strisciante.

12. Appare assai grave che il nuovo regolamento in materia di asilo, entrato in vigore nell’aprile del 2005, non disciplini le procedure di convalida giurisdizionale del trattenimento degli immigrati rinchiusi nei nuovi centri di identificazione, perché anche queste strutture, forse con la sola eccezione del centro Salina Grande di Trapani, appaiono come veri e propri centri di detenzione amministrativa, al punto che il ministero degli interni si sta battendo per la creazione di centri polifunzionali, in modo che l’assenza di regole in ordine al trattenimento (non è prevista alcuna forma di convalida da parte del magistrato) possa estendersi dai CID (Centri di identificazione) ai CPT. Intanto alcuni CPT , come la struttura “modello” di Pian del lago a Caltanissetta, svolgono di fatto la funzione dei centri di identificazione, anche se per la legge vigente non vengono riconosciuti come tali.
Ma in questa materia i ritardi nell’adozione degli strumenti regolamentari, gli equivoci e le limitazioni dei diritti fondamentali delle persone migranti non sono certo una novità, né sono appannaggio di una sola formazione politica. E’ assai significativa, oggi, la strenua difesa dei centri di permanenza temporanea da parte di chi, come l’ex ministro Livia Turco o l’on. Sinisi, ne sono stati convinti ideatori.
Preoccupa soprattutto, nelle dichiarazioni di questi politiciche si candidano ancora a promuovere le linee di politica sull’immigrazione del nuovo governo,ilmantenimento di tutti i poteri in materia di libertà personale degli immigrati irregolari in capo al Prefetto,una posizione questacheribadisce quella discrezionalità amministrativa che tanti abusi ha prodotto, violando la riserva di legge ed il controllo giurisdizionale imposti dagli articoli 10 e 13 della Costituzione.
Non si può certo dimenticare come dopo l’approvazionedella legge 40 nel 1998 si dovette attendere quasi un anno per avere un regolamento di attuazione che desse certezza alle regole di gestione dei centri di permanenza temporanea aperti in Italia, nell’estate del 1998, in un clima di grande improvvisazione, appena pochi giorni dopo l’approvazione della legge 40 da parte del Parlamento.
Questa circostanza determinò una situazione di totale arbitrio nella gestione dei CPT, allora difesi dall’ex ministro degli interni Napolitano e, soprattutto dopo la chiusura della regolarizzazione del 1998, alla fine del 1999, produsse quel clima di repressione e di disperazione che determinò la strage del centro Serraino Vulpitta di Trapani (poche settimane dopo che una circolare ministeriale invitava i prefetti a rinchiudere nei Cpt tutti coloro che avevano avuto respinta la domanda di regolarizzazione).
Si può osservare addirittura come la originaria formulazione della legge Turco Napoletano non prevedesse alcuna forma di controllo giurisdizionale sulle misure di espulsione o respingimento con accompagnamento immediato, misure che spesso venivano applicate utilizzando proprio il circuito dei CPT, magari solo per qualche giorno, ma violando in questo modo gli art. 10 e 13 della Costituzione, grave lacuna rabberciata con il decreto legge n.51 del 4 aprile del 2001 ( l data in sé assai significativa), successivamente recepito senza alcuna sostanziale modifica dalla legge Bossi Fini n. 189 del 2002. Non deve quindi stupire che, per la parte relativa ai centri di permanenza temporanea, dopo l’approvazione della legge Bossi Fini nel 2002, non sia stato necessario modificare sostanzialmente il Regolamento di attuazione approvato dal governo di centro sinistra nel 1999.

13. Il Regolamento di attuazione del T.U. 286/98 in materia di immigrazione, adottato nell’agosto del 1999, rimane dunque in vigore, anche nella parte che prevede disposizioni in contrasto tra loro, stabilendo prima che “le modalità del trattenimento devono garantire, nel rispetto del regolare svolgimento della vita in comune, la libertà di colloquio all’interno del centro e con visitatori provenienti dall’esterno, in particolare con il difensore che assiste lo straniero, e con i ministri di culto, la libertà di corrispondenza, anche telefonica, ed i diritti fondamentali della persona, fermo restando l’assoluto divieto dello straniero di allontanarsi dal centro”, per affermare subito dopo che ai centri possono accedere oltre ai familiari conviventi al difensore, ai ministri di culto” gli appartenenti ad enti, associazioni del volontariato e cooperative di solidarietà sociale, ammessi a svolgervi attività di assistenza a norma dell’art.22 ovvero sulla base di appositi progetti di collaborazione concordati con il prefetto della provincia in cui è istituito il centro”.
Le associazioni che non “collaborano” nella gestione del centro non possono dunque accedervi, a meno di ricevere, volta per volta una apposita autorizzazione da parte del Prefetto . Il successivo art.23 del regolamento sancisce infatti, a livello locale, il potere discrezionale del Prefetto che “disciplina” l’attività del centro “ in conformità alle istruzioni di carattere organizzativo e amministrativo contabile impartite dal Ministero dell’interno, anche mediante la stipula di apposite convenzioni con l’ente locale o con soggetti pubblici o privati che possono avvalersi dell’attività di altri enti, di associazioni del volontariato e di cooperative di solidarietà sociale”.
In base al regolamento del 1999, “ il questore adotta ogni altro provvedimento e le misure occorrenti per la sicurezza e l’ordine pubblico nel centro, comprese quelle per l’identificazione delle persone e di sicurezza all’ingresso nel centro, nonché quelle per impedire l’indebito allontanamento delle persone trattenute e per ripristinare la misura nel caso che questa venga violata.”
La libertà di incontrare “ visitatori provenienti dall’esterno”, come tutte le altre modalità del trattenimento, rimangono così affidati alla discrezionalità delle autorità amministrative presenti nei centri, delle Prefetture e dei vertici del Ministero degli interni.
Queste prescrizioni regolamentari confermano che solo sulla carta i CPT sono “estranei al circuito carcerario”, come peraltro affermato dal governo in carica nel 1997, nella relazione che accompagnava la proposta di legge che poi si tradusse nella legge Turco-Napolitano n.40 del 1998.
La configurazione originaria, peraltro, ancora mantenuta a livello di prescrizioni formali, era quella di luoghi dove si limiterebbe la libertà di circolazione delle persone, al punto che in caso di allontanamento non veniva prevista una specifica sanzione, ma il mero “ripristino” della misura da parte del Questore. Nessuna norma specifica con quali mezzi e le cronache ricordano furiosi pestaggi a seguito dei tentativi di fuga.
Nei fatti i CPTA sono diventati veri e propri centri di detenzione amministrativa, ripetiamo detenzione amministrativa, perché totalmente rimessa alla discrezionalità dell’autorità amministrativa, e per questa ragione dunque in contrasto con le previsioni costituzionali e con le norme delle Convenzioni internazionali, incluso il tanto richiamato art. 5 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Anche la natura giuridica di questi luoghi rimane assai ibrida. Alcuni anni fa i rappresentanti delle forze allora al governo affermavano che queste strutture non erano “né carceri, né alberghi”.
Ma in questo modo non chiarivano lo statuto giuridico di questi luoghi. Ancora oggi rimane incerta la qualificazione degli spazi che caratterizzano i CPTA, con tipologie diverse di recinzioni alle quali corrispondono diverse modalità di ingresso. Appositi spazi sono riservati per le procedure di identificazione e per le visite consolari, altre per il riposo notturno e per il soggiorno diurno, altre ancora per le visite dei soggetti esterni o per le attività delle associazioni convenzionate che cogestiscono queste strutture. Le delegazioni, anche quando sono composte da parlamentari seguono sempre un percorso guidato, non possono accedere a tutti gli spazi del centro, talvolta con la motivazione della necessaria tutela della sicurezza dei visitatori, o altre volte per la necessità ( asserita) di tutelare la privacy dei trattenuti.
Spazi del fuori, la cui definizione muta continuamente per le determinazioni dell’autorità amministrativa, come se la “confinazione fuori del diritto”, anticipasse, o rendesse più agevole, l’accompagnamento forzato in frontiera.
La discrezionalità amministrativa permette inoltre di qualificare “a posteriori” i comportamenti di tutti coloro che si trovano all’interno della struttura, siano essi parlamentari, rappresentanti di associazioni e movimenti, interpreti o migranti.
Al di là dei fatti realmente accaduti, la valutazione discrezionale “a posteriori”dell’autorità di polizia può comportare la imputazione dei più diversi reati: anche la raccolta delle richieste di asilo o la sottoscrizione dei mandati di difesa possono diventare occasione per una denuncia, per non parlare dei tentativi di far passare le associazioni come soggetti che istigano alla rivolta ed i volontari come soggetti interessati ad estorcere danaro, o altre utilità.
Un ampio campionario di un lavoro di “interdizione” che vorrebbe creare tra i migranti trattenuti nei CPT , le associazioni ed i rappresentanti della società civile un muro più alto di quelli costruiti con il cemento e fortificati con il filo spinato. Un muro di incomprensione e di sfiducia. La cd. “permanenza temporanea” si traduce dunque in una situazione di sospensione del diritto, per tutti e non solo per i migranti.
Naturalmente la condizione degli immigrati trattenuti è la peggiore in quanto la permanenza non è una misura detentiva e la temporaneità priva l’immigrato della possibilità di fare valere davanti al giudice le proprie ragioni. I ricorsi giurisdizionali sono privi di qualsiasi effetto sospensivo dell’espulsione o del trattenimento. La misura coercitiva imposta allo straniero ( che non può allontanarsi dal centro in base all’art. 21 del regolamento di attuazione del 1999, tuttora in vigore per questa parte) si traduce “ di fatto” in una limitazione della libertà personale che ricade pertanto nell’ambito di applicazione dell’art. 13 della Costituzione, come rilevato a più riprese dai giudici ordinari e dalla Corte Costituzionale. E’ dunque alle prescrizioni dell’art. 13 della nostra legge fondamentale che ci si dovrebbe attenere per una revisione normativa che renda possibile la chiusura degli attuali centri di permanenza temporanea e la loro trasformazione in veri centri aperti di accoglienza.
Strutture pubbliche delle quali il nostro paese ha grande bisogno, ma di cui una irresponsabile politica dell’accoglienza ha drasticamente ridotto i finanziamenti ( esemplare al riguardo la vicenda del Programma nazionale asilo, fortemente ridimensionato dopo l’entrata in carica del governo Berlusconi).

14. Si può invece segnalare il tentativo più recente di una proliferazione di queste strutture detentive che alcuni rappresentanti della attuale maggioranza di governo, certamente rassicurati dalle posizioni di autorevoli membri dell’opposizione, vorrebbero creare in ogni provincia.
Proliferazione incontrollata che già si verifica in Sicilia con i cd. centri di prima accoglienza e soccorso, previsti dall’art. 23 del regolamento del 1999, con una disciplina ancora aggravata dal decreto del governo Berlusconi, emanato nel settembre 2002, che, dichiarando per l’ennesima volta un vero e proprio “stato di emergenza” in materia di immigrazione, ha concesso proprio ai Prefetti i più ampi poteri per aprire nuove strutture detentive ed organizzarne il funzionamento.
Naturalmente senza aste pubbliche ma con bandi di gara per “somma urgenza”, o a trattativa riservata. In Sicilia, a seconda delle diverse ondate di sbarchi, si sono realizzate da parte delle Prefetture strutture detentive temporanee che vengono continuamente chiuse quando i migranti sono trasferiti in un altro centro, per essere poi riaperti allo sbarco successivo ( così ad esempio a Porto Empedocle in provincia di Agrigento, a Pozzallo, in provincia di Ragusa ed in provincia di Siracusa). Centri di detenzione che la stampa locale si ostina a definire come centri di accoglienza. Un’ accoglienza dietro le sbarre.

15. Ma non si possono ignorare neppure le condizioni igienico sanitarie in cui sono quelli che vengono definiti come centri di permanenza temporanea e assistenza, strutture che per legge necessiterebbero di un apposito decreto istitutivo sulla base di requisiti assai rigorosi.
Le ultime visite effettuate da delegazioni di parlamentari europei, nazionali e regionali, al di là dei piccoli sotterfugi posti in essere per mostrare una realtà diversa da quella quotidiana, hanno documentato la quasi totale assenza di interpreti e di servizi di mediazione, oltre che la impossibilità di ricevere informazioni sul diritto di asilo o di presentare la relativa istanza; e sono ancora riscontrabili condizioni igieniche scandalose, e regimi detentivi ai limiti del trattamento disumano e degradante ( sanzionato dalla Convenzione Europea a garanzia dei diritti dell’uomo), come la prassi, in alcuni centri di detenzione siciliani, di chiamare continuamente l’appello, con lunghe code in fila, in piedi, sotto il sole.
Altre file come quelle per ricevere le razioni di cibo. Quando in centri strutturati per ricevere non più di duecento persone si sono ammassati oltre mille immigrati (come a Lampedusa, dove, a parte i giorni nei quali si svolgono le visite dei parlamentari europei, le presenze quotidiane superano spesso le seicento unità) le condizioni di vivibilità ed il rispetto delle leggi rimangono affidati più ai manganelli che alle istruzioni fornite dagli interpreti "di fiducia" presenti all’interno dei CPTA.
E questo anche per l’equivoca formulazione del regolamento di attuazione della legge Turco Napoletano che consente il trattenimento nei CPT degli immigrati “soccorsi” durante il tentativo di ingresso irregolare in Italia. Un’altro esempio di “accoglienza dietro le sbarre”.
Da queste prassi amministrative - che negano la dignità delle persone trattenute nei centri in attesa di espulsione- sono derivati frequenti episodi di autolesionismo, nel più completo silenzio dei mezzi di informazione, unica tragica testimonianza della disumanità delle condizioni di trattenimento e della totale assenza di prospettive di vita per gli immigrati che vengono rinchiusi in quelli che molti giornali definiscono ancora come “centri di accoglienza”.
Dopo anni di denunce da parte delle associazioni indipendenti il rapporto sui centri di permanenza temporanea presentato nel 2003 dalla associazione Medici senza frontiere (disponibile nel sito internet della stessa organizzazione) ha documentato inconfutabilmente la fondatezza delle accuse rivolte al sistema dei centri di detenzione amministrativa da molte associazioni non governative. Le stesse accuse sono state documentate e confermate da successive visite del Comitato per la prevenzione della tortura e dalla Federazione internazionale dei diritti dell’uomo, oltre che dal rapporto annuale di Amnesty international.
Sono ancora in corso alcuni processi penali, in particolare a Lecce, ed a Bologna, contro responsabili ed operatori di queste strutture, rinviati a giudizio per gravi abusi commessi ai danni degli immigrati trattenuti nei CPT.
Anche a Ragusa, dopo la visita di una delegazione parlamentare nell’estate del 2005, è stata presentata una denuncia alla magistratura per le percosse che sarebbero state subite da una immigrata cinese e per la mancata ammissione di alcune donne alla procedura di asilo. Si rimane ancora in attesa di conoscere gli sviluppi di questa vicenda.

16. Al di là dei centri di detenzione amministrativa, il costante aumento delle sanzioni penali previste a carico dei migranti irregolari impone di considerare il circuito CPT-Carcere come un ciclo unico di sanzione della mera presenza irregolare sul territorio, dopo il mancato rispetto del primo ordine di espulsione, mentre per la esecuzione delle espulsioni i nuovi accordi di riammissione prevedono forme estremamente rapide di allontanamento forzato degli immigrati trovati sul territorio italiano in condizioni di irregolarità, senza un effettivo controllo giurisdizionale.
Ed in effetti i governanti europei si sono ormai accorti della impossibilità di contrastare l’immigrazione dei cd.”clandestini” attraverso lo strumento dei centri di detenzione, ricorrendo a forme sempre più violente di sbarramento dei confini ( come a Ceuta e Melilla, enclavi spagnole in Marocco) o a procedure sommarie e collettive di allontanamento forzato in frontiera eseguito immediatamente, senza neppure transitare in strutture detentive che comunque impongono un sia pur minimo controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’operato delle forze di polizia.
Corrispondono a queste scelte di politica della sicurezza le nuove prassi amministrative adottate dalle autorità italiane, spagnole, francesi e tedesche che eseguono l’espulsione immediata dei cd. clandestini con la organizzazione di “voli charter congiunti” organizzati in poche ore per accelerare e rendere ancora più “efficaci” e meno costose le procedure di rimpatrio forzato. In questo caso il trattenimento amministrativo si riduce al minimo e avviene anche in strutture come stazioni di polizia e zone di transito aeroportuale o stazioni marittime, che diventano luoghi inaccessibili (anche per i familiari, per gli interpreti e per gli assistenti legali), di privazione completa dei diritti dei migranti in attesa di espulsione o di respingimento.
Se i mezzi economici e le strutture mancano, si cerca di mettere le mani sulle risorse e sulle strutture destinate, anche da parte degli enti locali, all’accoglienza ed alla integrazione, come sta avvenendo con il trasferimento alle Prefetture dei poteri decisionali prima affidati al Servizio centrale in materia di assegnazione degli immigrati nell’ambito dei progetti nazionali asilo ( PNA). Oppure si continua a finanziare un privato sociale che considera l’espulsione dei migranti come una sicura prospettiva occupazionale ( se non speculativa).

17. Occorre dire basta a questa politica basata sullo sfruttamento dei lavoratori migranti costretti alla irregolarità, sulla strumentalizzazione della paura del diverso, e sulla privatizzazione della detenzione amministrativa. Va consolidato il fronte comune tra associazionismo ed enti locali per ottenere la chiusura dei CPT, strutture che costituiscono una offesa ai principi democratici ed ai diritti, di asilo, di difesa, alla salute ed alla vita, riconosciuti dalla nostra Costituzione. Ma bisogna anche modificare le leggi in materia di immigrazione e asilo, abrogando la Bossi-Fini, senza inutili finzioni nominalistiche.
Una disciplina efficace delle espulsioni potrà realizzarsi anche senza la detenzione amministrativa nei CPTA, che non sono da confondere come centri di accoglienza ( come li continua a chiamare la stampa), siano centri di identificazione o polifunzionali.
In conformità con le norme internazionali deve essere esclusa la privazione generalizzata della libertà personale dei richiedenti asilo. Le espulsioni ed i respingimenti vanno limitati ai casi più gravi, sottoposte ad un diffuso controllo giurisdizionale, senza colpire le vittime del traffico ma contrastando le grande agenzie criminali nei luoghi dove queste prosperano indisturbate con la copertura di quei governi che poi concludono accordi di riammissione con l’Italia.
Sono anni che le associazioni hanno denunciato i loschi traffici che si svolgono a Malta, in Grecia ed in Turchia (come non ricordare le tante indagini asai documentate di Dino Frisullo?), ma in questa direzione ancora oggi si preferisce stipulare accordi con gli stati che rimangono inerti di fronte alle organizzazioni criminali che operano sul loro territorio e non si curano dei diritti umani dei migranti che sono vittime del traffico.
Vanno riconosciuti a chiunque – anche se immigrato irregolare- i diritti fondamentali della persona umana sanciti da tutte le Costituzioni moderne. La criminalità e il terrorismo si sconfiggono con azioni mirate, con la identificazione certa dei sospetti, con l’inclusione ed il coinvolgimento delle comunità degli immigrati, e non certo con l’internamento in strutture come i centri di permanenza temporanea, funzionali all’ attribuzione di identità mirate soltanto all’esecuzione più rapida dell’espulsione.
Occorre ritornare a politiche migratorie inclusive, e abbandonare la logica delle leggi manifesto che hanno moltiplicato a dismisura la sanzione penale della presenza irregolare dei migranti, presenza largamente sfruttata dal nostro sistema imprenditoriale.
Ai richiedenti asilo va garantito l’accesso alla procedura, un esame imparziale della domanda e l’effetto sospensivo del ricorso giurisdizionale.
Una nuova politica dell’immigrazione e dell’asilo che si basi sulla chiusura dei centri di detenzione amministrativa, e su una ridefinizione degli accordi di riammissione sulla base di standard minimi degni di un paese civile e democratico. Una politica che sappia finalmente superare la politica degli accordi trasversali, ancora oggi assai diffusi in materia di immigrazione ed asilo, quella stessa logica che ha consentito fino ad oggi la più totale copertura delle responsabilità politiche e penali degli autori degli abusi perpetrati nell’allontanamento forzato e nella detenzione amministrativa dei migranti.

4 ottobre 2005
Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo

[ pubblicato online mercoledì 5 ottobre 2005 ]

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