Quindici minuti per decidere una vita
Avviate il cronometro e immaginate di raccontare a uno straniero sconosciuto gli anni più importanti della vostra vita. Avete un quarto d'ora ma il tempo effettivo - considerando che ogni frase va tradotta dall'interprete - è circa la metà. Sette-otto minuti, dunque. Concluso l'esperimento, domandatevi se il vostro interlocutore si è fatto un'idea precisa di chi siete. E' molto importante. Deve, infatti, decidere sul vostro futuro. Se gli avrete fatto una buona impressione, vi concederà di continuare a vivere. Se non ci sarete riusciti, vi condannerà a essere dei fantasmi. Non potrete lavorare, non avrete un documento di identità e al primo controllo di polizia sarete imprigionati e poi espulsi.
Quest'incubo è la realtà del 30 per cento degli stranieri che chiedono l'asilo politico all'Italia. Un altro 37 per cento è un po' più fortunato: ha a disposizione circa mezzora. C'è poi un 20 per cento che arriva all'ora e una minoranza di fortunatissimi (poco più dell'11 per cento) che viene ascoltata per più di sessanta minuti.
E' uno dei dati raccolti nel corso di una ricerca promossa dai Centri di servizio per il volontariato del Lazio (in collaborazione con una serie di associazioni tra le quali la Caritas e il Centro Astalli) sulla condizione dei cosiddetti "diniegati", cioè degli stranieri che hanno chiesto l'asilo politico e si sono sentiti dire "no" dalle commissioni incaricate di valutare i requisiti.
Non stiamo parlando, dunque, degli immigrati che arrivano in Italia per cercare un lavoro, per migliorare la loro condizione economica, ma di uomini e di donne che vengono da noi (o almeno affermano di averlo fatto) per fuggire da persecuzioni politiche. Persone alle quali l'Italia ha il dovere giuridico (imposto dalla Costituzione) di dare rifugio. Naturalmente dopo aver verificato che si tratti realmente di perseguitati politici e non di impostori.
A leggere i risultati della ricerca - intitolata significativamente "presenze trasparenti" - si ricava la sgradevole impressione che la selezione non avvenga con la cura che ci si aspetterebbe davanti a una materia delicata come la vita umana. I colloqui frettolosi non sono che uno dei tanti indizi. Si verificano sciatterie grossolane come l'assenza dell'interprete. A volte un "no" è causato da errori di traduzione che, scolpiti nei documenti ufficiali, non possono essere più cancellati. Come se la decisione di un processo dove è in gioco un ergastolo fosse affidata a un giudice onorario frettoloso e distratto.
La ricerca è stata svolta dal giugno dello scorso anno ai primi mesi di questo. Il rapporto conclusivo descrive un quadro contraddittorio. Luci e ombre. Registra con soddisfazione un decreto del marzo scorso che stabiliva l'effetto sospensivo del ricorso contro il diniego. Una decisione sostenuta da un dato statistico: un terzo dei ricorsi è accolto e il "diniegato" diventa un rifugiato a tutti gli effetti.
Il volume era già in stampa quando si è verificato un fatto nuovo. Il governo intende modificare di nuovo la norma: dopo il primo "no" scatterà l'espulsione. Quei quindici minuti torneranno a essere decisivi per la vita o la morte (perché essere espulsi molto spesso significa questo) di alcune migliaia di persone. Pensiamoci mentre vediamo scorrere i secondi sul nostro cronometro.
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