di MARIA ELENA VINCENZI
ROMA - Scambiata per prostituta, umiliata davanti ai passanti proprio nel centro della città, portata all'ufficio Immigrazione. E lasciata lì, tutta la notte, in una cella minuscola, sporca e maleodorante con prostitute vere, che le passano accanto e sbrigano le pratiche per il rilascio ben più velocemente di lei. Succede a Roma, la città che, su disposizione del governo, avrà il maggior numero di militari a presidiare strade, stazioni, ambasciate. La stessa dove i primi appuntamenti nell'agenda del sindaco sono le nuove ordinanze anti-rovistaggio, anti-accattonaggio Scambiata per prostituta, una notte in cella
Le vittime sono due ragazze normalissime. Vestite come qualsiasi altra giovane romana. Jeans, T-shirt a girocollo, ballerine, 28 anni, occhiali a goccia, capelli legati e un filo di trucco. Solo che, nonostante l'inflessione romanesca, sono peruviane. Almeno di nascita: a Roma ci vivono da cinque anni. Sono diplomate in Italia e frequentano regolarmente l'università "La Sapienza". Si mantengono con qualche lavoretto, una fa la cameriera e l'altra la baby sitter. Vivono in zona Prati. La domenica insegnano catechismo a Santa Maria degli Angeli, piazza della Repubblica, poco distante dalla centralissima stazione Termini.
Un racconto fatto di lacrime e paura, quello delle due protagoniste della storia, M. J. P. e Y. V. "Erano le 17 quando sono arrivata in via XX Settembre per aspettare che la mia amica uscisse dal lavoro. Dovevamo andare con amici a prendere l'aperitivo. Lei era in ritardo, così ho deciso di sedermi sui gradini di Santa Maria della Vittoria. Cinque minuti e una volante della polizia mi si avvicina. Gli agenti abbassano il finestrino e uno dei due mi chiede: "Ma che fai ti metti a lavorare proprio qui, davanti a una chiesa?". Io, incredula, rispondo: "Come?". Lui ripete lo stesso concetto. Rimango senza parole, non riesco a credere che si possano essere permessi di confondermi con una prostituta: sono una ragazza normale, vestita con gonna e camicia. Non riesco a reagire. L'unica cosa che faccio è chiamare la mia amica". Che racconta: "Sono scesa, ho trovato M. in lacrime. Mi sono avvicinata e gli agenti hanno ripetuto a me la stessa cosa, con lo stesso tono sprezzante: "Bella, diglielo pure alla tua amica, questa è una chiesa, non potete mettervi a lavorare qui". Vado su tutte le furie e loro, di tutta risposta, ci chiedono i documenti: io li avevo, la mia amica no perché aveva una borsetta da sera molto piccola. Intorno, la gente iniziava a innervosirsi per la reazione dei poliziotti. Tanto che, dopo qualche schermaglia, decidono di andare via".