di Susanna Marietti
Era la fine del 2000, il 27 dicembre per la precisione, quando un ragazzo di 35 anni detenuto presso il carcere di Rovigo si fece dare dell’eroina dal compagno di cella appena rientrato da un permesso premio. All’alba del giorno seguente il ragazzo morì di overdose nel chiuso della sua stanza di detenzione. Era un tossicodipendente e aveva anche seri problemi di alcol. Diana Blefari Melazzi, la neobrigatista condannata all’ergastolo per l’omicidio di Marco Biagi che si è impiccata lo scorso 31 ottobre nel carcere femminile di Rebibbia a Roma, era depressa. Evidentemente depressa.
È di qualche giorno fa l’inattesa notizia che racconta di un giudice civile che ha condannato il Ministero della Giustizia a risarcire la sorella del trentacinquenne morto a Rovigo con 182.000 euro. Eppure, il ragazzo si è ucciso con le proprie mani. Proprio come Diana Blefari.
Ma quel giudice bizzarro ha ritenuto di dover dare alla parola “custodia” un significato più ampio di quello che comunemente circola nella semantica penitenziaria. Un significato che tenga dentro non solamente un’idea di sorveglianza, che pur c’è ed è sacrosanta, ma anche un qualcosa di più desueto in tali contesti – eppure è il primo dei significati elencati dallo Zingarelli! – per cui la custodia guarda anche alla “conservazione, cura, tutela” di quanto custodito. Un tossicodipendente e alcolista, ha ragionato il giudice, affinché sia conservato, curato, tutelato, deve essere innanzitutto osservato. Se trascura di osservarlo, e permette che si inietti una dose letale di eroina, il Ministero della Giustizia è corresponsabile della morte.
Allo stesso modo, si potrebbe usare l’argomentazione dell’avvocato Matteo Mion, vincitore di questa sentenza, per sostenere che Diana Blefari, abbandonata a se stessa nella propria cella singola nella quale non si alzava quasi più dalla branda, non è stata conservata, curata, tutelata dal nostro Ministero. E la stessa cosa si potrebbe dire per molte altre delle morti che il dossier di Ristretti “
Morire di carcere ” ci elenca tristemente.
Nel luglio scorso l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per aver fatto vivere un detenuto in condizioni di sovraffollamento per alcuni mesi. Moltissimi altri detenuti stanno oggi seguendo l’esempio del pioniere e stanno presentando, con l’aiuto dell’associazione Antigone, i loro ricorsi a Strasburgo. Il Governo, che sente poco la campana dei diritti umani, sentirà forse quella dei sonanti quattrini.
La cifra che l’Italia è condannata a pagare dalla sentenza della Corte Europea è ben inferiore alla cifra di Rovigo. Se i famigliari di tante persone decedute in carcere in questi anni decideranno di fare proprio l’altro significato della parola “custodia”, lo Stato potrebbe venire sbancato. Come il banco in un anomalo casinò di giustizia.