di Stefano Anastasia*
La copertina del libro«Quando sentite dire che “le carceri sono alberghi a cinque stelle”, non credeteci. Quando sentite dire con disprezzo che “i detenuti hanno perfino la televisione”, riflettete sul fatto che è una delle poche cose che hanno… Quando sentite al telegiornale che “c’è un allarme criminalità”, andate a guardare le statistiche e scoprirete che i reati gravi sono in calo costante. Quando leggete sui giornali che “quel rapinatore era libero grazie alle scarcerazioni facili, … pensate che per un detenuto premiato che torna a fare una rapina, ce ne sono oltre cento che lavorano onestamente e di cui nessuno parla». Inizia così, con queste istruzioni per l’uso, l’ultimo capitolo, quello dedicato ai media, de
Il carcere spiegato ai ragazzi (Manifestolibri 2010, pp. 143, € 15), con il quale Patrizio Gonnella e Susanna Marietti si sono cimentati nel temerario compito di rendere conoscibile il penitenziario.
Non un esercizio letterario, né un sermone ex cathedra, "Il carcere spiegato ai ragazzi" è il risultato di un lavoro sul campo, che ha portato lo scorso anno l’associazione Antigone, di cui Gonnella e Marietti sono instancabili animatori, a cimentarsi in un corpo a corpo con alcune scolaresche romane, nell’ambito di un progetto voluto dalla Regione Lazio. Il risultato è un saggio lieve, che con linguaggio diretto e comunicativo spiega anche ai più grandi, che più frequentemente e più colpevolmente dei ragazzi parlano a sproposito del carcere, il funzionamento reale del nostro sistema penitenziario.
Prendendo a prestito l’aggettivo con il quale gli autori qualificano il capitolo dedicato al lavoro e all’istruzione in carcere, dell’intero volume si potrebbe dire che si tratta di un libro "sconsolato": esso infatti mostra la verità del carcere nella sua contraddittorietà, nella sua irragionevolezza, nella sua ipocrisia, nel caos delle sue prescrizioni e delle sue prassi. Sia chiaro, Gonnella e Marietti tendono all’ottimismo normativo: ciò che il diritto dice, ciò che si dovrebbe fare. E comprensibilmente scrivono perché i giovani lettori sappiano, conoscano quel "dover essere", e magari lo condividano, contro lo spirito del tempo. Poi però, inevitabilmente, cadono loro malgrado "sconsolati", letteralmente privi di consolazione: quel diritto, quei diritti, non riescono a fare del carcere ciò che gli è contrario per statuto. Il carcere è un luogo di pena, e la pena è sofferenza, e la sofferenza si avverte nel corpo e nell’anima, attraverso un processo di degradazione che resta l’essenza della punizione e di cui il libro dà un’immediata percezione.
Uno dei capitoli più curiosi e divertenti (se possible) racconta del gergo carcerario, di «una lingua strana, da un lato spaccona e smaliziata e dall’altra sprovveduta e fanciullesca». Così viene descritta quella particolare forma di bilinguismo che si usa in carcere: la lingua parlata e quella formale, quella spaccona, che restituisce identità ai detenuti, e quella infantilizzante, che asseconda l’ideologia rieducativa del penitenziario. Del gergo penitenziario fa parte quell’insolito uso del participio presente del verbo lavorare, su cui Gonnella e Marietti, a più riprese, richiamano l’attenzione dei loro lettori: lavorante piuttosto che lavoratore. L’essere un lavoratore indica(va) una condizione sociale (relativamente) stabile; il lavorante è colui che sta, in questo momento, lavorando, non che lo abbia fatto in passato, non che lo farà in futuro: un lapsus freudiano, che tradisce il non detto della ideologia penitenziaria, e cioè che il lavoro penitenziario è una forma di disciplinamento, non la conquista di una identità sociale.
Torna, insistentemente, in questo viaggio nelle carceri italiane, il riferimento al sovraffollamento e al suo condizionamento di tutta la vita penitenziaria. Alla vigilia dell’ennesimo fallimento di un tentativo di farvi fronte, c’è da sperare che questo libro incontri i suoi lettori. In fondo, nella bulimia penitenziaria che segna la nostra epoca, gli editti normativi non sono altro che strumenti di soddisfazione di una pulsione sociale di rassicurazione simbolica nella forma del sacrificio penitenziario. Un altro ordine del discorso e un’altra cultura diffusa nelle generazioni più giovani potrebbe aiutarci a invertire la rotta.
Articolo pubblicato su Il Manifesto