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di Stefano Anastasia
DIFENSORE CIVICO. Da qualche tempo, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, insiste sul fatto che ci si debba abituare all’idea che in Italia, in carcere, fisiologicamente, ci debbano stare 70.000 detenuti.
Da qualche tempo, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, insiste sul fatto che ci si debba abituare all’idea che in Italia, in carcere, fisiologicamente, ci debbano stare 70.000 detenuti. Sarebbe così assicurato il rapporto di 110 detenuti ogni 100.000 abitanti, il tasso medio di detenzione nei Paesi del Consiglio d’Europa. Con questo “pragmatico” atteggiamento, a dispetto dei solenni annunci dello stesso Presidente del Consiglio, in Parlamento si discute di un provvedimento che potrebbe mandare in detenzione domiciliare sì e no 2.000 persone e il problema centrale torna a essere quello, irrisolvibile, della realizzazione di circa 30.000 posti detentivi nel bel mezzo di una crisi economica senza precedenti.
Quanto siano “pragmaticamente” efficaci queste scelte lo lasciamo alle valutazioni di chi legge. Intanto, però, comparazione per comparazione, suggeriamo di prestare attenzione anche alla principale anomalia italiana nella composizione della popolazione detenuta: quasi la metà dei detenuti è in attesa di giudizio, con una percentuale doppia rispetto a quella della media europea. A dispetto dei sacri principi, che vorrebbero la custodia in carcere una misura cautelare estrema, ed estremamente limitata nel tempo, c’è chi aspetta in carcere il processo per motivi di sicurezza, chi sconta in questo modo una pena anticipata e chi viene trattenuto quel tanto che basta affinchè collabori allo svolgimento delle indagini e ne risolva i buchi neri. Tra queste migliaia di persone, c’è anche Stefano Mazzitelli, ex amministratore delegato di Telecom Sparkle, detenuto da più di tre mesi nel carcere romano di Rebibbia dove, tra le altre cose, soffre di una patologia osteo-articolare non adeguatamente curata.
Nonostante sia stato oggetto di un lavoro investigativo durato più di tre anni, nonostante non sia più in carica dal novembre scorso, nonostante sia fuori dall’azienda da febbraio, nonostante tre mesi di custodia in carcere, Mazzitelli – come i suoi colleghi di sventura Massimo Comito e Antonio Catanzariti - si è visto negare gli arresti domiciliari perché – sappiamo dalle cronache - dagli interrogatori resi ai pm non sarebbero emersi elementi utili per giustificare una interruzione o una attenuazione della misura cautelare.
Utili a chi? Utili a cosa? Non tocca all’accusa motivare e rimotivare la sussistenza di ragioni cautelari così rilevanti da giustificare la carcerazione di un presunto innocente? Va bene che un certo “pragmatismo” istituzionale impedisce a noi “piccoli” italiani di scostarci dalle medie europee con qualche “best practice”, ma è proprio necessario coltivare e coccolare i peggiori vizi del nostro sistema giudiziario?