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Incensurato, solare, con meno di vent'anni, da poco rientrato dalla Germania dove era andato a cercare lavoro e fortuna, Carmelo Castro viene coinvolto in una piccola storia criminale nella sua Sicilia. Il 24 marzo 2009 alle ore 14.00 i carabinieri lo portano prima nella caserma di Biancavilla, poi in quella di Paternò vicino Catania. La sorella Agatuccia lo segue disperata. L'accusa è quella di aver preso parte, insieme ad altre due persone, a una rapina. Si sarebbe prestato a fare il palo. Agatuccia, insieme ad altre due donne, lo raggiunge a Paternò. I militari non le fanno vedere il fratello. Loro, testarde, si piazzano in una stanzetta. Lì hanno modo di sentire le urla e i pianti di Carmelo. Agatuccia ci riprova e tenta di andarlo a vedere. Viene fermata ancora una volta da un carabiniere. Passano cinque ore, sono le 7 di sera e un carabiniere le invita ad andarsene. Loro si piazzano nel giardinetto antistante la caserma. Passa un quarto d'ora e lo vedono uscire. Dicono che hanno visto una faccia gonfia e «pestata».
Agatuccia urla ai Carabinieri: «cosa gli avete fatto?»
Carmelo Castro alle 2 di notte del 25 marzo finisce in galera a Piazza Lanza. Così iniziano tre giorni di buio carcerario. Il 28 marzo a un orario imprecisato della tarda mattinata, racconta la «versione ufficiale», il ragazzo si sarebbe suicidato attaccando il lenzuolo allo spigolo della branda della sua cella. In quei giorni ai familiari viene impedito di incontrarlo, di comunicare con lui in qualsiasi modo. Lo rivedranno cadavere. Avranno la notizia della morte tre ore dopo il decesso.
Una volta incarcerato, CArmelo Castro è messo in isolamento. Non si capisce, perché non ve ne è traccia negli atti di indagine, se l'isolamento sia stato disposto dal giudice: sta di fatto che viene disposto. Nel frattempo psicologi ed educatori accertano che ha bisogno di sostegno in quanto «fortemente provato dalla detenzione». A loro dice che «da tempo vive in una condizione di assoluta paura». Eppure viene lasciato solo in cella con lenzuola a disposizione per impiccarsi. Tenere in isolamento una persona a rischio di suicidio è gravissimo e colpevole. Il 28 marzo alle 9 e 30 un agente lo trova «tranquillo e sereno». Alle 12 e 20 l'assistente capo di turno va a farsi un giro nel reparto e lo trova «all'impiedi con il lenzuolo in dotazione attorniato al collo con un nodo». Lo lascia lì impiccato e va a chiamare aiuto. Il medico interviene alle 12.35. Il verbale del pronto soccorso segna le 12. 30 come orario dell'arrivo del cadavere di Carmelo Castro. Orari fra loro contradditori. Dalla documentazione carceraria parrebbe che l'ultimo ad averlo visto in vita sia stato l'agente di sezione alle 9.30. Ma l'autopsia rileva che Castro aveva mangiato pochi minuti prima di morire. Alle 11 e 30 gli era stato portato il pranzo (carne con patate) dal detenuto porta vitto e lui lo aveva mangiato tutto. Qualcuno con la divisa deve avergli aperto la cella. Pochi minuti dopo, a pancia piena, si sarebbe ammazzato impiccandosi alla spalliera di un letto alto 170 centimetri. Lui che era alto 175 centimetri.
Su tutta questa storia - dal presunto pestaggio alla morte in carcere - le indagini della magistratura sono state del tutto lacunose. A luglio 2010 il caso è stato archiviato senza che i giudici abbiano mai sentito la sorella di Castro, l'ultimo agente che lo ha visto in vita, l'assistente che lo ha trovato morto (che fra l'altro dopo un anno e mezzo avrebbe a sua volta tentato il suicidio), il detenuto che gli ha portato il pranzo, psicologi, psichiatri ed educatori che hanno ascoltato e documentato le sue preoccupazioni. Il caso è stato chiuso senza aver acquisito il registro delle visite mediche di primo ingresso, dal quale avrebbero potuto risultare eventuali segni di violenze subite, senza aver verificato il perché Castro era preoccupato e impaurito, senza aver sequestrato la cella, senza aver accertato come mai un detenuto a rischio di suicidio fosse stato lasciato solo con un lenzuolo in dotazione.
Tutto questo è successo nella terra del ministro della Giustizia Angelino Alfano. La madre e la sorella di Carmelo Castro non hanno una loro verità, ma vogliono giustizia. Per questo va riaperta l'inchiesta. Per questo, insieme con «A Buon Diritto», abbiamo presentato un esposto alla Procura, che finora ha indagato in modo che potremmo definire burocratico. Se il caso dovesse restare chiuso ci rivolgeremo ai giudici europei. In ogni caso ci attendiamo che l'amministrazione penitenziaria avvii una sua inchiesta per capire come può accadere che un ragazzo di 19 anni senza precedenti si impicchi in isolamento nonostante avrebbe dovuto essere controllato a vista.
* Presidente di Antigone