Si
riaffermò così il principio che nessuna situazione d'eccezione può far derogare
dal divieto assoluto di ricorrere alla tortura: inaccettabile sul piano della
comune percezione di civiltà giuridica, inammissibile nella simmetria che
stabiliscono tra azione dello stato di diritto e pratiche delle organizzazioni
criminali, foriera di gravi distorsioni dell'azione di giustizia, tale è la
forza verso l'adesione a qualsiasi ipotesi dell'accusa che la sofferenza
determina.
Il divieto assoluto era già del resto in convenzioni e patti internazionali su
cui i paesi democratici hanno ricostruito la propria legalità ordinamentale
dopo le tragedie della prima metà del secolo scorso. L'Italia, spesso
inadempiente sul piano degli impegni conseguenti, quali per esempio la
previsione dello specifico reato di tortura, ha sempre dichiarato la sua ferma
adesione ai principi in essi contenuti. Eppure, solo negli ultimi quindici
giorni sono emersi ben tre casi - diversi nel tempo e nella specificità dei
corpi di forze dell'ordine che hanno operato - che fanno capire tale distanza.
Asti, 2012
Ad Asti, il tribunale ha emesso il 30 gennaio una sentenza in cui,
qualificando i maltrattamenti inferti da agenti della polizia penitenziaria nei
confronti di due detenuti come «abuso di autorità contro arrestati e detenuti»
ha dichiarato prescritto il reato. L'esito non stupisce perché non è il primo
in tale direzione; colpisce però la chiarezza con cui il giudice scrive nella
sentenza che «i fatti in esame potrebbero agevolmente essere qualificati come
tortura» (risparmio ai lettori la descrizione puntuale dei maltrattamenti
subiti dai detenuti), ma che il reato non è previsto nel codice e, quindi, il
tribunale non può che far ricorso ad altre inadeguate tipologie di reato.
Nessun dubbio, quindi, sugli atti commessi e provati in processo, peraltro
confermati da intercettazioni di chiacchierate telefoniche tra gli imputati.Ad
Asti la tortura è avvenuta, ma non è perseguibile adeguatamente.
Calabria, 1976
Dall'altro capo della penisola, in Calabria, la Corte d'Appello tre giorni
fa ha assolto, in un processo di revisione, Giuseppe Gulotta dopo ventidue anni
di carcere, trascorsi sulla base di un processo centrato sulla testimonianza di
un presunto correo, che aveva portato all'incriminazione anche di altri due
giovani. Il fatto era del lontano gennaio 1976, Gulotta aveva allora 18 anni, e
il processo ha avuto la revisione solo perché un ex brigadiere dei carabinieri,
all'epoca in servizio al reparto antiterrorismo di Napoli, ha raccontato
quattro anni fa che la testimonianza era stata estorta con tortura. E con
torture erano state estorte anche le confessioni dello stesso Gulotta: il
sistema doveva essere stato ben convincente (lo stesso ex brigadiere li
definisce «metodi persuasivi eccessivi») ed era maturato all'interno dell'Arma
nel tentativo d'incastrare esponenti della sinistra - si diceva allora
extraparlamentare - nella morte di due carabinieri. La vicenda ha avuto anche
un altro esito inquietante: perché il presunto correo, che aveva poi cercato di
scagionare gli accusati, venne trovato impiccato in cella in una situazione che
definire opaca vuol dire eufemizzare; gli altri due accusati nel frattempo
erano riusciti a riparare in Brasile.
Il caso «De
Tormentis», 1978
Mercoledì scorso, la ricerca di scavare in casi non risolti che viene
condotta da Chi l'ha visto? ha portato nella calma atmosfera serale delle
famiglie la drammatica e torbida vicenda di gruppi speciali che operavano gli
interrogatori verso la fine degli anni Settanta di appartenenti o simpatizzanti
della lotta armata. Enrico Triaca ha raccontato la sua storia e le torture
subite nel maggio 1978, dopo il suo arresto in una tipografia romana come
fiancheggiatore delle Br: le torture vennero inflitte non da un agitato
poliziotto a cui la situazione sfuggì di controllo ma da un gruppetto all'uopo
predisposto, coordinato da questo signore delle tenebre che veniva nominato con
il nickname «De tormentis», osceno come il suo operare.
Triaca, sparito per una ventina di giorni dopo il suo arresto, aveva denunciato
immediatamente le torture subite, ma il giorno successivo alla denuncia aveva
ricevuto il mandato di cattura per calunnia - l'allora capo dell'ufficio
istruzione Achille Gallucci era un tipo veloce - e la conseguente condanna.
Sarebbe una bella occasione la riapertura del processo per calunnia, ora che si
sa chi si cela dietro quel nickname. Si sa che questi si definisce un nobile
servo dello stato, che non nega ma inserisce il tutto in una sorta di necessitata
situazione. Egli, sia pure con qualche successivo passo indietro, conferma.
Così come già qualche anno fa un altro superpoliziotto, Salvatore Genova, in
un'intervista al Secolo XIX, aveva confermato che torture erano state inflitte
alle persone arrestate nell'ambito dell'indagine sul sequestro Dozier, operato
in Veneto dalle Br qualche anno dopo. Allora Genova era stato indicato come
oggetto di calunnia, qualcuno (il Partito Socialdemocratico, strano esito dei
nomi) gli aveva dato l'immediato salvacondotto della candidatura in Parlamento,
e anche se in quel caso un'inchiesta aveva, contrariamente al solito, accertato
fatti e responsabilità, nessuno aveva pagato; anche perché il reato che non c'è
oggi non c'era ovviamente neppure allora. Ma, il tutto era stato sempre
riportato al caso isolato, alla sbavatura in un contesto in cui si affermava e
si ripeteva che la lotta armata era stata affrontata e sconfitta senza mai
debordare dal binario del rigoroso rispetto della legalità.
Questo riandare indietro di qualche anno, dal caso Dozier al caso Moro, e
ritrovare stesse pratiche, stessi nomi, un gruppetto all'uopo utilizzato -
«prestato» alla bisogna da Napoli al nord - ben noto a chi aveva allora alte
responsabilità, dà un'altra luce al tutto.
La tortura è una
pratica «sistemica»
Del resto i tre fatti riportati, proprio perché hanno diverse
determinazioni di territorio, di tempi in cui sono avvenute, di corpi che hanno
operato, forniscono uno scenario inquietante nel rapporto che il nostro paese
ha con la tortura: chi ha pratica di ricerca scientifica o sociale sa che
l'ampiezza di più parametri fa passare la valutazione di quanto osservato da
«episodico» a «sistemico» e cambia quindi la modalità con cui valutare il
fenomeno. Interroga per esempio, in questo caso, sulle culture formative di chi
opera in nome dello stato, sulle coperture che vengono offerte, sull'assenza
infine, da parte delle forze politiche e culturali del paese, di una
riflessione più ampia su come questi fatti siano indicatori della qualità della
democrazia.
L'atteggiamento della loro negazione o della loro riduzione a fatti marginali è
di fatto complice del loro perpetuarsi e dell'affermarsi implicito di un
principio autoritario come costruttore dell'aggregato sociale a totale detrimento
dello stato di diritto.
Per questo va rifiutata l'impostazione che da sempre alcuni politici e alcuni
procuratori hanno avuto nell'affermare senza velo di dubbio che l'Italia, anche
in anni drammatici, non ha operato alcuna rottura della legalità: per questo
già trent'anni fa alcuni di noi - penso all'esperienza della rivista Antigone
che uscì come supplemento a questo giornale - avviarono una serrata critica
alla logica e alla cultura, oltre che alle pratiche, di quella che allora era
definita «legislazione d'emergenza».
Spataro, Battisti e la
magistratura
Anche recentemente - esattamente un anno fa, il 19 febbraio, in occasione
del dibattito attorno alla estradibilità di Battisti - il procuratore Spataro
si fece carico di riaffermare su queste pagine che «l'Italia non ha conosciuto
derive antidemocratiche nella lotta al terrorismo» e che «è falso che l'Italia
e il suo sistema giudiziario non siano stati in grado di garantire i diritti
delle persone accusate di terrorismo negli anni di piombo». Oggi, credo, che
tali asserzioni, figlie della negazione della politicità del fenomeno di
allora, debbano essere riviste.
Perché non è possibile che ciò che avveniva e avviene nel segreto non sia noto
a chi poi interroga un fermato o lo visita in cella. Non era possibile allora e
non è possibile nei casi di maltrattamento di oggi.
Il tribunale di Asti, per esempio, è severo con il direttore di quel carcere,
le cui dichiarazioni sono definite a tratti «inverosimili». E il magistrato che
raccolse le testimonianze accusatrici di Gulotta come indagò sulle modalità con
cui esse erano state ottenute? Così come i magistrati che videro Triaca e
ascoltarono le sue affermazioni, non appena ricomparso dai giorni opachi, quale
azione svolsero per comprenderne la fondatezza?
La responsabilità, almeno in senso lato, non è solo di chi opera, ma anche di
chi non vede e ancor più di chi non vuole vedere. Perché la negazione
dell'esistenza di un problema non aiuta certamente a rimuovere ciò che lo ha
determinato e apre inoltre la possibilità di mettere sotto una luce sinistra
ogni altra operazione, anche quelle di chi - fortunatamente la larga
maggioranza - ha agito e agisce nella piena correttezza.
In un articolo di ieri su Repubblica, Adriano Sofri ricordava come molte di
queste storie fossero note, almeno sfogliando i rapporti per esempio di Amnesty
o anche le stesse denunce avvenute in Parlamento. È vero, ma credo che tra un
«io so» detto secondo la pasoliniana memoria e una esibita dichiarazione da
parte di chi in tal senso operò, ci sia una distinzione sostanziale: una
distinzione tale da rendere inaccettabile il silenzio o il perdurare in una
logica che nulla è accaduto e nulla accada.
Oggi il continuare a negare il problema non aiuta a chiudere il passato in modo
politicamente ed eticamente accettabile e utile, né a capire quali antidoti
assumere per il suo non perpetuarsi.