("Paese Sera", 2 dicembre 1985)
Studiare in carcere: che cosa significa? Significa moltissime cose. Studiare non è sinonimo di leggere, di curiosare tra i libri, di riempire le tremende ore vuote di un rapporto qualsivoglia con la carta stampata. Studiare vuol dire, prima di tutto, progettare: non guardare lo srotolarsi dei giorni e dei mesi soltanto come un lentissimo conto alla rovescia. […]
Studiare "dentro" vuol dire vincere prima di tutto una scommessa con se stessi, con la propria età, con la propria storia, col proprio essere separato, diviso, forse dalla prima infanzia o adolescenza, da quell'esperienza collettiva piena di contraddizioni che si chiama scuola. […] Andare avanti vuol dire mostrare a se stesso e agli altri – prima di tutto a se stesso – che fra le tante terribili separazioni della sua vita (terribili anche nella casa di pena più umana o nella meno inumana) tra tutte le separazioni che lo trafiggono non c'è – anzi può essere addirittura rovesciata – quella separazione che fa del detenuto un essere fermo al momento della sua cessata libertà. Chi è entrato in carcere semianalfabeta o con una scuola media fatta male o con un liceo o una scuola superiore mollata a metà e ce la fa ad uscire con un titolo di studio più avanzato, magari con la laurea, ha vinto una grossa scommessa con il tempo che gli è stato sottratto per "regolare i suoi conti con la giustizia". Ha fatto una scommessa e in quella scommessa non è stato perdente. […]
Si disilluda chi crede che insegnare in carcere sia una bellissima attività caritativa: è invece una splendida, sofferta, attività di autoeducazione. E perciò davvero valida. Vi ringrazio, amici studenti detenuti: da voi, con voi, ho imparato molto. E stato uno scambio, un arricchimento, che continua, che non si esaurisce nelle ore di lezione perché "dare e ricevere sono la stessa cosa" dice J.L. Borges in una frase, un pensiero che vorrei vedere scritto sui muri, a caratteri forti.