Dalla Gozzini a oggi, cosa è
cambiato? - Stefano Anastasia
Roma, 21 settembre 2013
“Dalla Gozzini a oggi, cosa è cambiato?”: questo il titolo impegnativo che si è dare al mio contributo al nostro incontro. Cominciamo col dire che il carcere di Laura, quello che riscoprì nell’impegno volontario degli anni Ottanta, era ancora il carcere del “secolo breve”, anche se il secolo e i suoi momenti migliori volgevano al termine. Inevitabilmente il carcere si manifestava - avremmo imparato a dire nel decennio successivo – come la solita “discarica sociale”, ai soliti fini punitivi, di controllo e/o di disciplinamento della devianza imputabile di qualche responsabilità penale. Ciò che il carcere immancabilmente è, da quando se ne è reinventata la funzione moderna, agli albori della civiltà capitalistica. La solita discarica sociale calmierata però dall’ideale universalistico dello Stato sociale del secondo Novecento, che si riteneva dovesse riguardare pure loro: gli invisibili, quelli brutti, sporchi e anche cattivi. Non altrimenti possiamo leggere la faticosa storia che porta dall’articolo 27, comma 3, della Costituzione alla riforma penitenziaria del 1975, fino al suo rilancio del 1986 (la legge Gozzini, appunto): un ardimentoso progetto di ingegneria sociale volto alla correzione dell’errore e al recupero sociale del deviante. Il progetto era a tal punto socialmente condiviso che nella storia dell’Italia repubblicana poterono esserci ben dodici provvedimenti generali di amnistia e di indulto (una ogni tre-quattro anni, la prima con Togliatti Guardasigilli, l’ultima per il nuovo codice di procedura penale) senza le polemiche che abbiamo conosciuto – in tutt’altro clima politico, sociale e culturale – in occasione dell’indulto del 2006. Come ha scritto Massimo Pavarini, il conflitto sociale (pure forte, fortissimo, in quegli anni) nella prima repubblica trovava altre modalità di espressione, al di fuori del vocabolario penalistico della colpa e della pena.
Almeno due gli elementi di distinzione, nella popolazione detenuta, tra allora e oggi:
a) una nutrita presenza di “detenuti politici”, a vario titolo partecipi – tra la metà dei 70 e la metà degli 80 – di quella che un tardo processo dell’epoca qualificherà come un progetto di “insurrezione armata contro i poteri dello Stato”;
b) una composizione mononazionale del carcere, ancora abitato quasi esclusivamente da cittadini del Sud d’Italia, in attesa che la trasformazione delle rotte migratorie lo rendesse un luogo di transito (e spesso il portone d’accesso) dei cittadini dei sud del mondo in arrivo nel nostro Paese.
Il carcere di Laura è il primo che io abbia conosciuto, quando nelle stanze di via della vite, del Centro per la Riforma dello Stato presieduto da Pietro, organizzavo con il mio primo maestro di cose giuridiche, Salvatore Mannuzzu, le riunioni di un gruppo di lavoro cui anche Laura, forte della sua esperienza di volontaria, talvolta partecipava. Un gruppo di lavoro che produrrà qualche anno dopo la prima ricerca nazionale – commissionata dal Ministero della giustizia e diretta da Beppe Mosconi e Massimo Pavarini – sul sentencing penitenziario in Italia, e cioè sui modi e le variabili (giuridiche e socio-anagrafiche) delle decisioni dei tribunali di sorveglianza nella valutazione delle istanze per l’accesso alle misure alternative nella breve stagione della piena vigenza della legge Gozzini (1986-1990). I tempi, infatti, stavano già cambiando, e non nel senso da noi auspicato.
Nel 1990 entra in vigore la legge Iervolino-Vassalli che - prevedendo la punibilità dei consumatori di droghe illegali – inaugurerà l’epoca dell’incarcerazione di massa in Italia. Seguiranno le ripetute limitazioni alle alternative al carcere, una normativa sull’immigrazione fatta per alimentare irregolarità, marginalità e devianza, l’ideologia della “tolleranza zero” e la stretta contro i recidivi. Il risultato – tutt’altro che accidentale – sono le carceri che esplodono, sovraccariche di un’umanità in eccesso, selezionata tra i più disgraziati che abitino le nostre città.
Ora l’Europa (quella buona, quella della Convenzione europea dei diritti umani) ci sta col fiato sul collo: anche da noi, come negli Stati uniti e in Germania (dove pure i tassi di detenzione e di sovraffollamento sono più bassi che da noi o addirittura nulli), l’incarcerazione di massa è entrata in rotta di collisione con i principii universalistici della nostra civiltà. Molti, e tutti noti agli addetti ai lavori, sono gli accorgimenti tecnici per la riduzione e la fine del sovraffollamento penitenziario. Ma non saranno le ricette dei “tecnici” a salvarci, se non riscopriremo le radici solidaristiche e universalistiche della nostra Costituzione e se non sapremo farci carico di quell’altra città di cui scriveva Laura nel ricordo della sua scoperta giovanile del penitenziario, la città degli invisibili che, viceversa, ci rassicura tenere rinchiusa dietro le mura delle nostre prigioni.