Il racconto della coordinatrice nazionale.
Vi racconto la mia giornata di mercoledì scorso.
Il giorno prima avevamo lasciato la sede di Antigone verso le 19. La mattina dopo Roberta ed io siamo arrivate a Pietralata intorno alle 10.30. Girato l’angolo nel lotto di via Silvano 10 da dove si arriva alla porta della sede, abbiamo visto un capannello di persone, quattro o cinque, in prevalenza ragazze. Giusto due passi, il tempo di pensare che qualcuno dei nostri giovani avvocati fosse venuto fuori orario a lavorare su qualche caso, che affacciandoci sui due scalini che portano ai 25 metri quadri seminterrati che ci ospitavano abbiamo visto il materasso gettato a terra. “C’è stata un’occupazione”, ci hanno detto a brutto muso le ragazze. “Ve ne dovete andare. Ora ci vive lei. È una senzatetto che dorme in macchina”, e hanno indicato una giovane incinta dentro la stanza. Era pulita, ben pettinata e aveva perfino un filo di trucco. Dopo un minuto di smarrimento, abbiamo chiesto se sapessero cosa facciamo là dentro. Ho preso a caso una lettera da uno dei faldoni che contengono le migliaia di casi da noi seguiti. “Sono malato di cuore”, ho letto dove ho trovato la sottolineatura in giallo. Devo fare una cura, ho paura per la mia salute, ho letto ancora qua e là. Vedete – ho tentato di spiegare – questo signore è malato e noi gli mandiamo i nostri medici a costringere il carcere a curarlo. Lui non sta meglio di voi. Noi aiutiamo molti detenuti a trovare un alloggio perché pensiamo come voi che la casa debba essere un diritto.
Perché farci la guerra tra noi? Ma loro non avevano voglia di ragionare. Ci siamo avvicinate alla ragazza incinta e abbiamo tentato di chiederle dove avesse vissuto finora, come pensasse di sopravvivere e di che tipo di aiuto avesse bisogno. In un attimo la stanza si è riempita di uomini sbucati chissà da dove. È un fenomeno che si è ripetuto varie altre volte nel corso della lunga giornata. Lasciavano le donne a guardarci portar via i faldoni, ma alla prima nostra parola arrivavano quelli con i muscoli. Abbiamo chiamato il responsabile del circolo che ci ospitava, assegnatario di quello spazio Ater. Anche lui ha tentato di parlarci. “Ne ho fatte tante di occupazioni”, ha detto. “Ma si occupano gli spazi inutilizzati, non quelli di un’associazione che aiuta tanti poveracci”. Ma loro urlavano solo che “ve ne dovete andà” e che “qua oramai ci stiamo noi”. Poi è arrivato il vicepresidente del Municipio, ha proposto di trovare alla ragazza una stanza in una casa con altre persone. “Lei vuole stare da sola”, hanno risposto altre voci al posto suo. La giovane col pancione non si è mossa dalla sedia per tutta la giornata di forzata convivenza e ha detto sì e no quattro parole. Quando le ho proposto di affacciarsi fuori da quel sottoscala e prendere un po’ d’aria le solite altre voci hanno risposto: “seeee, brava…. E mo’ la facciamo uscì fuori da qui…!”. Potevamo andare al braccio di ferro ma abbiamo deciso di non farlo. Custodiamo vite intere di detenuti in quei fascicoli, per rispetto loro non potevamo rischiare una rappresaglia. Abbiamo lavorato fino a tardi per accatastare il nostro archivio nel circolo di fronte e ora siamo in cerca di un’altra sede. Una prima ipotesi è che qualcuno abbia usato la ragazza incinta per potersi poi prendere quello spazio da usare per fini non chiari. Mi pare plausibile. I vigili invece hanno voluto spiegarci che esiste un racket sulle case popolari che nulla ha a che fare con i movimenti di lotta per la casa. Si sfonda la porta, si occupa e si mette dentro una ragazza, dei bambini, una vecchietta. Calmate le acque, si liquidano le comparse con qualche euro e si vende a una famiglia di poveracci con qualche risparmio sotto al cuscino la possibilità protetta di abitare là dentro. L’ultimo scenario è che davvero quella ragazza non avesse casa e che quella stanza lo diventi. Ho pensato che se io dormissi per strada con i miei bimbi forse non avrei voglia di sforzarmi di distinguere la sede di un’associazione per bene. Ma, nella rara ipotesi che sia così, chiedo a tutte le autorità competenti di trovare a quella mamma una sistemazione più dignitosa. In quella stanza si muore di freddo e di umidità anche solo ad andarci a lavorare durante il giorno.