A Geminello Alvi dico: la lotta deve essere alla clandestinità, non ai clandestini |
Denunciare il lavoro in nero in cambio |
Paolo Ferrero Chi ha paura dei clandestini? A questa domanda la retorica xenofoba e emergenzialista della destra ci ha abituato da tempo. Oggi però il quesito che ci si può porre sembra essere un altro, vale a dire: chi ha paura che si cancelli la clandestinità? L’allarmismo con cui alcuni - come ha fatto ieri dalle pagine del Corriere della Sera Geminello Alvi - accolgono la proposta di concedere un permesso di soggiorno, che li sottragga alla clandestinità, a quei lavoratori immigrati sfruttati e costretti a lavorare in nero che decidano di denunciare la loro condizione, sembra infatti confermare come sia questa uscita di molti stranieri dallo stato di clandestini a fare oggi tanta paura. Eppure la lotta alla clandestinità, e non ai clandestini, dovrebbe rappresentare un punto qualificante della politica di un paese che si è trasformato nello spazio di alcune generazioni da terra di emigranti a terra di immigrazione. Un elemento, quest’ultimo, che i dati contenuti nel rapporto reso noto ieri dall’Istat su “La popolazione straniera residente in Italia”, non fanno che sottolineare. Tra quei dati ve ne è in particolare uno che già da solo ci offre molte indicazioni per comprendere il fenomeno migratorio nel nostro paese. Secondo l’Istat infatti la popolazione straniera è presente in maggioranza nelle regioni del Centro-Nord; non solo, ben il 24,9%, dunque circa un quarto del totale, risiede in Lombardia. Probabilemente queste cifre non sono dovute alla particolare attrattiva paesaggistica che la pianura padana o le valli pedemontane rappresentano per gli immigrati, quanto piuttosto alla forte rete produttiva presente in queste aree del nostro paese. Detto in altri termini: sono in larga misura le esigenze della nostra economia a guidare le scelte di chi decide di trasferirsi in Italia per vivere in modo più decente di quanto potrebbe fare nel proprio paese d’origine. Altri due dati contenuti nel medesimo rapporto dell’Istat ci dicono che è in crescita il numero di immigrati che acquisiscono la cittadinanza italiana e che sono in forte aumento i bambini nati nel nostro paese da genitori stranieri: due elementi ulteriori che ci parlano di una presenza dei migranti tutt’altro che episodica o momentanea. Per chi non lo avesse capito si sta parlando di una fetta crescente della popolazione di questo paese, si sta parlando degli italiani di oggi e di quelli delle generazioni future. In questo contesto, più che sgradevoli finiscono per risultare del tutto incomprensibili gli strali lanciati contro la possibilità che si conceda il permesso di soggiorno a quegli immigrati che denuncino la loro condizione di lavoratori al nero. L’ultimo a dare in escandescenze di fronte a tale prospettiva è stato ieri Geminello Alvi che ha liquidato la proposta come una sorta di invito alla delazione: “spiare per essere ammessi” è lo slogan che ha coniato il sociologo per l’occasione. Non tenendo evidentemente conto delle condizioni degne di un nuovo schiavismo nelle quali sono costretti a lavorare molti “irregolari” e della possibilità, attraverso questa norma, di sottrarli al controllo della criminalità organizzata che specula sul traffico di esseri umani. Non solo. Alvi e altri non sembrano comprendere come l’emersione di questa quota importante del lavoro del nostro paese non faccia, per così dire, “del bene” solo agli immigrati. La regolarizzazione può infatti permettere che la fetta di ricchezza che questo lavoro produce, non vada persa ma contribuisca al benessere dell’intera società. In questo l’interesse dell’immigrato può coincidere con quello del datore di lavoro e non a caso tra le ipotesi che abbiamo presentato c’è anche la possibilità che la “denuncia” sia presentata dallo stesso datore di lavoro. Si tratta cioè di una norma che, dopo quelle prese nella Finanziaria per la lotta all’evasione fiscale, punta all’emersione dal lavoro nero: un quinto del prodotto interno lordo arriva dal mercato nero in cui si muove la maggior parte dei 700mila clandestini che si calcola vivano oggi nel nostro paese. Se la Bossi-Fini costringeva nei fatti nella clandestinità una buona parte dei migranti presenti in Italia, è proprio partendo dall’emersione di questa fetta di lavoro nero che si può procedere a una riforma delle norme che regolano l’immigrazione nel nostro paese. Così facendo si propone infatti ai migranti di accedere a quegli elementi di legalità e di equità che sono la prima condizione per un vero processo di inclusione. |