“Rompere il silenzio” e chiudere i centri di permanenza. Questa la parola d’ordine del corteo al quale ieri è stato impedito di arrivare in via Corelli |
MIlano, in piazza per chiudere i Cpt |
Sergio Raffaele Milano nostro servizio “Rompere il silenzio” e chiudere i Cpt. E’ l’obiettivo che continuano a perseguire i consiglieri di Prc e le associazioni riunitesi nel progetto “Una Città per Tutti”. Ieri la manifestazione nei pressi del Cpt di via Corelli per chiederne ancora una volta la chiusura. Il corteo partito da piazza San Gerolamo è giunto fino al cavalcavia Buccali ma non è potuto proseguire oltre. Via Corelli la “zona rossa” assediata dalla polizia era inaccessibile. Nessuno tra i manifestanti ha osato violare il divieto ma tutti si sono chiesti «perché è possibile manifestare sotto le carceri di San Vittore ed invece non è permesso farlo in via Corelli?». Nel corteo, tra i manifestanti, incontriamo anche Amir Karar, giovane trentenne pakistano arrivato in Italia 3 anni fa e finito per quasi un mese a via Corelli. Appartenente ad una minoranza sciita, è stato costretto a lasciare il suo paese, senza riuscire però ad ottenere asilo politico in Italia. Amir è stato prelevato da una fabbrica di Arezzo dove lavorava senza permesso di soggiorno ed è stato portato nel Cpt. «Non capivo cosa stesse succedendo ed ero terrorizzato». La sua permanenza a via Corelli è durata poco. Grazie al sostegno di Rifondazione, del partito Umanista e del Centro delle Culture è riuscito ad uscire e ad ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il Cpt milanese può ospitare un massimo di 112 persone. La struttura interna è divisa in tre aree: una per i trans, un’altra a disposizione delle donne e un’ultima per gli uomini. La sicurezza è affidata a 130 poliziotti mentre la Croce Rossa gestisce il centro. Gli immigrati non in regola con il permesso di soggiorno possono essere segregati fino a 60 giorni senza aver commesso alcun reato. La permanenza si prolunga in attesa che la persona sia rispedita nel paese d’origine, ma di fatto non avviene mai. Succede invece che gran parte degli immigrati vengano rilasciati e si trovino da soli, senza documenti per strada. Questo accade perché il 75% delle risorse politiche spese in Italia in materia di immigrazione sono destinate a misure repressive. «Per cambiare la situazione occorre avere un’altra concezione dell’immigrazione» ci dice Ilaria Scorazzi, presidente di Arci Milano, che dal lontano ’98 organizza presidi per la chiusura dei Cpt. E’ trascorso un anno dai disordini scoppiati all’interno di via Corelli, il governo è cambiato e le associazioni continuano a chiedere alla prefettura milanese di rendere pubblici i dati relativi alla struttura. Si è creata una sorta di “omertà istituzionale”. E’ necessaria trasparenza. «Abbiamo presentato un’istanza formale per accedere agli atti amministrativi. E’ ovvio che ci verrà negata, ma ricorreremo al tar» ci racconta Pietro Masserotto, presidente del Naga, storica associazione milanese che si occupa di dare assistenza medica e legale agli stranieri senza permesso di soggiorno. E proprio riguardo al trattamento offerto agli “ospiti” i Cpt rimangono luoghi in cui i più elementari ditti umani vengano negati. Come ci spiega il consigliere regionale (Prc) Luciano Mulhbauer. «Molti stranieri trattenuti hanno denunciato ripetutamente un’assistenza medica nel centro che faceva largo uso di sostanze sedative, mentre in alcuni casi più gravi mi sono stati segnalati dei ritardi ingiustificati nel trasferimento in ospedale». La protesta continua, non si può eludere il problema dell’immigrazione con i centri di permanenza temporanea, ma occorre costruire una politica di integrazione. |