Buoni frutti. Secondo il Ministro degli interni Giuliano Amato la cooperazione con la Libia “sta dando buoni frutti”. Il 18 gennaio sono arrestati a Tripoli 190 candidati all’emigrazione clandestina verso la Sicilia: 99 egiziani, 43 marocchini, 10 sudanesi, 27 eritrei, 4 etiopi, 3 bangladeshi e 2 tunisini. Per loro inizia adesso l’inferno. Human Rights Watch e Afvic hanno denunciato a più riprese nel corso del 2006 gli abusi commessi dalla polizia libica nei centri di detenzione per i migranti, tre dei quali sono finanziati dall’Italia. Arresti arbitrari e senza processo, maltrattamenti, lavori forzati, torture e esecuzioni. Nelle prime due settimane di gennaio 878 arresti e 1.536 deportazioni. Da metà settembre le deportazioni sono state addirittura 8.336. Rispediti in aereo nei Paesi di origine, molti richiedenti asilo rischiano la vita, specialmente in Sudan e Eritrea. Per altri, in Niger, Sudan, Chad e Egitto, l’espulsione significa semplicemente essere abbandonati in ciabatte nel deserto, lungo una linea disegnata su una mappa.
La caccia alle streghe. Rabat ha ripulito il cortile spagnolo. Tra il 23 e il 29 dicembre 2006 almeno 450 stranieri arrestati durante retate notturne a Rabat (260) e Nador (60) e detenuti nel centre d’arrestation di Laayoun (200) sono espulsi e abbandonati nel deserto alla frontiera con l’Algeria, non lontano da Oujda. Tra loro 10 donne, di cui 3 in cinta, e 11 bambini, di cui uno disabile. I primi giorni di gennaio circa 400 persone riescono a tornare a piedi a Oujda. Raccontano di essere stati divisi per gruppi di poche decine e di essere stati minacciati dagli spari in aria delle forze marocchine a marciare verso l’Algeria, ricevendo poi lo stesso trattamento ma in direzione opposta dai soldati algerini. Stretto tra i due fuochi, un gruppo racconta di essere stato assalito nella notte da alcuni militari algerini, che avrebbero stuprato tre delle donne. Molti migranti hanno ferite sulla testa e sotto i piedi, causate dalle manganellate ricevute durante le operazioni di espulsioni. Tutti gli espulsi sono Africani neri. Tra i deportati compaiono anche 10 rifugiati riconosciuti dall’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati) e 60 richiedenti asilo, oltre che alcuni studenti e turisti in regola con il passaporto. Per loro l’Unhcr non ha mosso un dito, salvo una tardiva dichiarazione l’8 gennaio e un pacco di coperte inviate a Oujda, dato che il Marocco vieta ai funzionari Onu di lasciare Rabat.
Fosse la prima volta. Nel 2002 ben 8 deportati vennero trovati morti di freddo a pochi chilometri da Oujda e nell’ottobre 2005 addirittura 1.500 persone arrestate negli accampamenti di Bel Younes e Gourougou, a ridosso di Ceuta e Melilla, vennero abbandonate in pieno deserto a ‘Ain Chouatar. Soltanto l’intervento delle associazioni marocchine per i diritti umani evitò un’ecatombe. Un mese dopo le autorità algerine facevano piazza pulita a Maghnia, 13 km da Oujda, caricando centinaia di persone verso una meta sconosciuta. Un anno dopo molti sono ancora là, a Tinzaouatine, frontiera Mali-Algeria, in una terra di nessuno nel cuore del Sahara, a centinaia di chilometri di piste dalle prime città in Algeria e in Mali. Chi è riuscito ad andarsene ne parla come “la città dove dio non esiste”. Chi è ancora là ogni giorno rischia che il suo nome sia aggiunto all’epitaffio degli almeno 1.047 caduti nel grande deserto sulle rotte per l’Europa.
Abbiamo bisogno di elicotteri. Navi, aerei e elicotteri. Li chiede il vice presidente della Commissione europea Franco Frattini per “evitare nuovi flussi di immigrati”. Mentre non si fa niente per favorire ingressi legali dei vicini africani, Bruxelles insiste. La strategia è chiara: umanizzare la repressione in Europa e sigillare le frontiere esterne a tutti i costi. Così mentre il centro di permanenza temporanea di Gradisca ottiene il bollino di certificazione etica, da qualche parte nel deserto a pochi chilometri da Oujda un pugno di divise algerine eiacula su una donna stuprata. Il tutto mentre a Las Palmas si presentano i grandi risultati di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, che il 15 dicembre 2006 ha concluso Hera II, l’operazione di pattugliamento aeronavale congiunto in Mauritania e Senegal avviata l’11 agosto 2006. Bilancio: 57 cayucos intercettati e 3.887 passeggeri respinti verso la Costa africana, a fronte di 14.572 giovani sbarcati a bordo di 246 piroghe alle Canarie nello stesso periodo. Una missione costosa (3,5 milioni di euro) e non esente da rischi. Le barche fermate sono obbligate a invertire la rotta. Almeno 2 delle piroghe respinte hanno visto morire di stenti metà dei passeggeri prima di riguadagnare la costa africana. Il bilancio provvisorio è di 32 morti, 50 dispersi, e decine di piroghe che per evitare i pattugliamenti aeronavali navigano fino a 300 km dalla costa africana, affidandosi a un motore 40 cavalli, un gps e un grigri. Morire non fa più paura
Buoni frutti. Secondo il Ministro degli interni Giuliano Amato la cooperazione con la Libia “sta dando buoni frutti”. Il 18 gennaio sono arrestati a Tripoli 190 candidati all’emigrazione clandestina verso la Sicilia: 99 egiziani, 43 marocchini, 10 sudanesi, 27 eritrei, 4 etiopi, 3 bangladeshi e 2 tunisini. Per loro inizia adesso l’inferno. Human Rights Watch e Afvic hanno denunciato a più riprese nel corso del 2006 gli abusi commessi dalla polizia libica nei centri di detenzione per i migranti, tre dei quali sono finanziati dall’Italia. Arresti arbitrari e senza processo, maltrattamenti, lavori forzati, torture e esecuzioni. Nelle prime due settimane di gennaio 878 arresti e 1.536 deportazioni. Da metà settembre le deportazioni sono state addirittura 8.336. Rispediti in aereo nei Paesi di origine, molti richiedenti asilo rischiano la vita, specialmente in Sudan e Eritrea. Per altri, in Niger, Sudan, Chad e Egitto, l’espulsione significa semplicemente essere abbandonati in ciabatte nel deserto, lungo una linea disegnata su una mappa.
La caccia alle streghe. Rabat ha ripulito il cortile spagnolo. Tra il 23 e il 29 dicembre 2006 almeno 450 stranieri arrestati durante retate notturne a Rabat (260) e Nador (60) e detenuti nel centre d’arrestation di Laayoun (200) sono espulsi e abbandonati nel deserto alla frontiera con l’Algeria, non lontano da Oujda. Tra loro 10 donne, di cui 3 in cinta, e 11 bambini, di cui uno disabile. I primi giorni di gennaio circa 400 persone riescono a tornare a piedi a Oujda. Raccontano di essere stati divisi per gruppi di poche decine e di essere stati minacciati dagli spari in aria delle forze marocchine a marciare verso l’Algeria, ricevendo poi lo stesso trattamento ma in direzione opposta dai soldati algerini. Stretto tra i due fuochi, un gruppo racconta di essere stato assalito nella notte da alcuni militari algerini, che avrebbero stuprato tre delle donne. Molti migranti hanno ferite sulla testa e sotto i piedi, causate dalle manganellate ricevute durante le operazioni di espulsioni. Tutti gli espulsi sono Africani neri. Tra i deportati compaiono anche 10 rifugiati riconosciuti dall’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati) e 60 richiedenti asilo, oltre che alcuni studenti e turisti in regola con il passaporto. Per loro l’Unhcr non ha mosso un dito, salvo una tardiva dichiarazione l’8 gennaio e un pacco di coperte inviate a Oujda, dato che il Marocco vieta ai funzionari Onu di lasciare Rabat.
Fosse la prima volta. Nel 2002 ben 8 deportati vennero trovati morti di freddo a pochi chilometri da Oujda e nell’ottobre 2005 addirittura 1.500 persone arrestate negli accampamenti di Bel Younes e Gourougou, a ridosso di Ceuta e Melilla, vennero abbandonate in pieno deserto a ‘Ain Chouatar. Soltanto l’intervento delle associazioni marocchine per i diritti umani evitò un’ecatombe. Un mese dopo le autorità algerine facevano piazza pulita a Maghnia, 13 km da Oujda, caricando centinaia di persone verso una meta sconosciuta. Un anno dopo molti sono ancora là, a Tinzaouatine, frontiera Mali-Algeria, in una terra di nessuno nel cuore del Sahara, a centinaia di chilometri di piste dalle prime città in Algeria e in Mali. Chi è riuscito ad andarsene ne parla come “la città dove dio non esiste”. Chi è ancora là ogni giorno rischia che il suo nome sia aggiunto all’epitaffio degli almeno 1.047 caduti nel grande deserto sulle rotte per l’Europa.
Abbiamo bisogno di elicotteri. Navi, aerei e elicotteri. Li chiede il vice presidente della Commissione europea Franco Frattini per “evitare nuovi flussi di immigrati”. Mentre non si fa niente per favorire ingressi legali dei vicini africani, Bruxelles insiste. La strategia è chiara: umanizzare la repressione in Europa e sigillare le frontiere esterne a tutti i costi. Così mentre il centro di permanenza temporanea di Gradisca ottiene il bollino di certificazione etica, da qualche parte nel deserto a pochi chilometri da Oujda un pugno di divise algerine eiacula su una donna stuprata. Il tutto mentre a Las Palmas si presentano i grandi risultati di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, che il 15 dicembre 2006 ha concluso Hera II, l’operazione di pattugliamento aeronavale congiunto in Mauritania e Senegal avviata l’11 agosto 2006. Bilancio: 57 cayucos intercettati e 3.887 passeggeri respinti verso la Costa africana, a fronte di 14.572 giovani sbarcati a bordo di 246 piroghe alle Canarie nello stesso periodo. Una missione costosa (3,5 milioni di euro) e non esente da rischi. Le barche fermate sono obbligate a invertire la rotta. Almeno 2 delle piroghe respinte hanno visto morire di stenti metà dei passeggeri prima di riguadagnare la costa africana. Il bilancio provvisorio è di 32 morti, 50 dispersi, e decine di piroghe che per evitare i pattugliamenti aeronavali navigano fino a 300 km dalla costa africana, affidandosi a un motore 40 cavalli, un gps e un grigri. Morire non fa più paura