Sull'immigrazione serve una legge coraggiosa Alessandro Dal Lago È difficile prevedere quanto durerà questo governo. Ma la sua esistenza precaria e variabile è legata all'alleanza di fatto di gran parte delle forze politiche in funzione anti-berlusconiana. Dunque, un'alleanza moderata, centrista, a cui le cosiddette forze della sinistra radicale sono vincolate per non diventare il capro espiatorio di una crisi al buio. È quindi sicuro che il risultato tangibile del recente sussulto sia il rifinanziamento della missione in Afghanistan (dove la situazione sta degenerando di giorno in giorno), nonché l'affossamento dei Dico (anche se l'opinione pubblica, molto meno conservatrice dei suoi rappresentanti, appare favorevole).
Ma il campo in cui le aspettative pre-elettorali saranno probabilmente più deluse è quello dei diritti degli stranieri: revisione della Bossi-Fini, diritto d'asilo, Cpt. Come le esternazioni del ministro Amato avevano già indicato, su questo terreno il governo attuale, più che prudente, appare del tutto in linea con quelli precedenti. In gioco, infatti, non è tanto una posizione progressista contro una conservatrice, quanto una cultura comune che copre gran parte dell'arco parlamentare. Una cultura, oltretutto, coerente con le linee guida e le disposizioni degli organismi europei. Sul diritto d'asilo, l'Italia è forse il paese più chiuso di tutti, ma per il resto si conforma alla strategia europea. Vediamone gli aspetti principali.
L'immigrazione non è un diritto dei migranti, ma una risorsa dei paesi di immigrazione. Le esigenze del mercato del lavoro (in gran parte sommerso, come in Spagna, Grecia o Italia, o marginale o comunque indispensabile, come nelle economie più sviluppate) sono prioritarie. Vengano dunque badanti, manovali, operai ecc., ma solo alla condizione che la loro presenza sia regolata, controllata e comunque poco visibile.
L'immigrazione è un problema di sicurezza. Non si tratta tanto del pericolo di infiltrazioni terroristiche (che comunque è molto gettonato nelle relazioni dei servizi segreti, non solo italiani), quanto dell'assunto incrollabile che gli stranieri minacciano potenzialmente la solidità della compagine sociale. L'assunto è declinato in una varietà di luoghi comuni, di estrema destra (la «purezza» etnica o culturale), di centro («immigrazione uguale insicurezza») e perfino, ogni tanto e per fortuna marginalmente, di sinistra (l'immigrazione contribuisce al degrado della cultura del lavoro).
I clandestini minacciano le prerogative della sovranità degli stati e quindi i Cpt non possono essere chiusi. Al limite possono essere resi più efficienti, monitorati e meno «disumani», ma restano indispensabili per filtrare ed espellere persone indesiderate. È la posizione dominante in Europa e corrisponde in tutto e per tutto a quella dell'attuale ministro degli interni. La mia impressione è che quattro quinti del parlamento, se non di più, la sottoscriverebbero.
La strategia per affrontare la questione migratoria, oltre che repressiva, è culturale, non giuridico-politica. Si tratta dell'aspetto meno evidente e più ambiguo, ma vale la pena spenderci qualche parola. Per cominciare, i migranti non sono mai considerati soggetti portatori di diritti (attuali e potenziali), ma esseri bisognosi e soprattutto omogenei alla propria cultura. Solo integrando la loro cultura nella nostra, limiteremo i danni della loro presenza. Apparentemente, questa posizione «multiculturale» si contrappone a quelle xenofobe (per cui le «culture» dei migranti inquinano la nostra). Ma in comune hanno il fatto che il migrante non è un soggetto autonomo e soprattutto pari a noi, gli ospitanti. Da qui il rifiuto - ahimé, anche in questo caso, diffusissimo - di considerare lo straniero come cittadino. Minaccia e ospite tollerato per lo più, soggetto giuridico-politico mai.
Ripeto, le linee guida della strategia in materia di immigrazione sono europee (da Schengen in poi). Quindi, non c'è da illudersi che il nostro governo - a parte le considerazioni di schieramento richiamate qui all'inizio - adotti una posizione autonoma. D'altra parte, basta vedere come il «mite» Zapatero ha agito a Ceuta e Melilla per comprendere che una politica progressista sulle questioni migratorie in Europa non c'è. L'agenzia per il controllo delle frontiere Frontex e i pattugliamenti congiunti nel Mediterraneo e in Atlantico (di fatto iniziative simil-Nato) spiegano a sufficienza la strategia europea. Su questo terreno l'Italia è autonoma dall'Europa, quanto lo è stata dagli Usa sulla base di Vicenza e lo oggi è in Afghanistan.
Se quanto precede ha un senso, ne discendono un paio di conseguenze, in particolare per le forze impegnate contro i Cpt e per i diritti dei migranti. La prima è sicuramente che una strategia esclusivamente nazionale in questo campo non paga. Purtroppo, l'evidente declino del movimento anti-globalizzazione non fa sperare. Eppure, una robusta ripresa trans-nazionale (se non altro in termini di comunicazione, diffusione e sensibilizzazione) appare come la sola condizione per riaprire il discorso sui diritti globali, almeno in Europa. Il che significa anche monitorare il sistema dei controlli che l'Europa ha subappaltato ai paesi rivieraschi della riva sud del Mediterraneo e dell'Africa occidentale. Oggi, la repressione del diritto di migrazione comincia nei deserti e nelle acque delle Canarie, di Gibilterra e del canale di Sicilia.
La seconda ha a che fare con la cambiale in bianco che alcuni hanno pagato all'attuale governo, forse nell'illusione che la presenza di forze radicali avrebbe dato impulso a un reale cambiamento di strategia. La delusione mi sembra evidente. Dove sono finiti i governatori anti Cpt? Qui non si tratta di fare generici proclami né di invocare secessioni parlamentari, ma di riflettere sull'inevitabile accomodamento alla «realtà» che ogni alleanza governativa impone alle minoranze di sinistra.
Sarà anche banale ripetere che è solo la forza dei movimenti a fermare o modificare le strategie politiche moderate. Meno banale è ricordare che tale forza si disperde inevitabilmente quando alimenta quella che Foucault avrebbe chiamato la «governamentalità». Forse è il caso di cominciare a chiedersi se, soprattutto in materia di diritti fondamentali, l'autonomia dai governi non sia più produttiva della partecipazione.