Viale Forlanini 37. Oltre il cancello, l’accampamento. Quattro caseggiati, dove entriamo accompagnati da Marcel, il rumeno, che da anni vive qui e della ex-caserma, dove da mesi bivaccano 170 eritrei, conosce tutto. Marcel si muove sicuro nel buio pesto. Agli angoli dell’enorme stanzone, due candele. Una forma femminile tira la tenda per nascondere il corpo. Con un sorriso ricompone la sua disturbata intimità. Accanto a lei, si muove qualcosa. E’ un altro corpo, quello del marito, che borbotta. Poi, da altre direzioni, altri rumori, uditi appena. Gli occhi indovinano a fatica cosa si muove, nel buio dello stanzone. Qualcuno accende un’altra candela. Prima che il vento la spenga, alcune ombre ondeggiano sulle pareti. Marcel estrae dalla tasca una piccola torcia elettrica. A poco a poco, la stanza si rivela. Nel centro, un’unica colonna di cemento armato. Lungo il perimetro, uno accanto all’altro, materassi, coperte, letti, stracci. Gli occupanti sono decine. "Quanti?", chiedo a Marcel. "Una cinquantina". Usciamo per rientrare in un altro caseggiato. Anche questo è fatiscente, con enormi aperture per porte e finestre, dalle quali chiunque può entrare e uscire come e quando vuole. Nonostante qui vi siano diverse stanze, l’intimità non è che un miraggio. Ogni spazio è occupato, conquistato, rubato. Alcuni cubi di cartone, con uno straccio sopra, compongono rudimentali rifugi. Buio dappertutto. E dappertutto spazzatura, freddo, umidità. Non c’è acqua, non ci sono servizi igienici, non c’è elettricità. "Perché?", chiedo a Marcel. "Fattelo dire da loro".
"Come posso avere figli qui?". Solleviamo la tenda di uno dei cubicoli di cartapesta ed entriamo. Due giovani nascondono un cartone di vino sotto il letto e acconsentono a parlare. Hanno vent’anni, sono eritrei. Poco italiano, preferiscono parlare inglese. "Giornalista", esordisco. "Ismail", fa uno dei due. "Giornalista? Vengono spesso giornalisti qui. A volte non vediamo quello che scrivono. A volte sì. Ma tanto, a che serve scrivere? Qui la situazione non cambia". "Perché non cambia?". "Perché non può cambiare. Con il permesso di soggiorno per motivi umanitari nulla può cambiare per noi". Man mano che proseguiamo, si avvicina un uomo sulla cinquantina, anche lui eritreo. "Io sono qui da tre anni, ma in Italia da molto di più. Ho fatto di tutto, manovale, cameriere, saldatore. Ho lavorato con la Lodigiani, ho asfaltato decine di chilometri di strade. Ho anche moglie qui. Ma con il permesso di soggiorno per motivi umanitari non ho diritto a null’altro che questa sistemazione". "Ha figli?". "Come potrei?", risponde, mentre fa cenno di seguirlo. Ci introduciamo in un bugigattolo di pochi metri quadri, forse una quindicina. "Quanti siete qui?", gli chiedo. "Una decina. Mi dica come faccio ad avere un figlio, quando vivo gomito a gomito con tutti gli altri". Torniamo all’esterno, dove qualcuno ha acceso un fuoco. Marcel fa spazio e ci sediamo insieme a sei-sette persone. Anche loro eritrei, appena ventenni. "Perché siete qui?". "Perché nel nostro Paese c’è la dittatura, la guerra". "Quando siete arrivati?". "L’estate scorsa, a Lampedusa". "Non avete un lavoro?". "Non possiamo". "Come no?". "Abbiamo il permesso di soggiorno per motivi umanitari", rispondono in coro.
Come ombre. La risposta che tutti danno rappresenta il paradosso di una legislazione che accorda loro un diritto ma che intorno a questo diritto crea il vuoto. Una volta giunti in Italia, i ragazzi eritrei hanno ottenuto il permesso di soggiorno ’umanitario’, che dura un anno, a differenza dell’asilo politico vero e proprio, che ne dura due. Legali, regolari, protetti a tutti gli effetti, dal momento in cui hanno fatto il ’fingerprint’, le impronte digitali in Questura a Lampedusa o a Crotone, comincia la loro schiavitù di uomini liberi. Liberi di muoversi, scegliere una destinazione, che molto spesso è il nord. Liberi di partire, senza un soldo in tasca. Arrivati a Milano, l’ufficio stranieri ha per loro solo brutte sorprese: nessuna assistenza qui, nessun programma di integrazione. Lo sportello accoglie solo chi ha un permesso umanitario rlasciato nel territorio, e non in un’altra regione. Le tutele del riconoscimento del diritto di asilo terminano quando le Questure, dopo il loro arrivo, assolvono le procedure burocratiche per concedergli il documento: arrivederci tra un anno, quando il permesso andrà rinnovato. "E spesso non abbiamo soldi per tornare al sud, a Bari, a Crotone - dice Salomon, 21 anni -, ma perché non possiamo rinnovarlo qui a Milano?". "Quando cerchiamo lavoro - spiega Ismail, 20 anni -, ci ridono in faccia. Col permesso non abbiamo l’obbligo di residenza, ma anche se l’avessimo dove troveremmo casa? Senza casa, e con un permesso temporaneo nessuno è disposto a darci lavoro". Il comune di Milano fa parte del sistema di tutela per richiedenti asilo e rifugiati. Per loro dovrebbe essere previsto un alloggio, vitto, sostegno legale. Ma ad assistere i 170 eritrei di viale Forlanini non ci sono che Caritas, Naga (un’associazione che si occupa di assistenza socio-sanitaria per stranieri e nomadi), e forse pochi altri. Lo Stato italiano, regolarizzando temporaneamente la loro posizione senza garantire alcun sostegno, li ha condannati a un limbo dal quale è assai difficile affrancarsi. A viale Forlanini gli eritrei si sentono ombre. Qui, lunedì scorso, Mhari si è impiccato per la disperazione.
"Questo è il Ruanda". Il fuoco si spegne, mentre gli ultimi tornano dalla mensa della Caritas. Si dirigono pigri verso i loro formicai di cemento, nel buio, tra le pozze d’acqua e i topi, lungo un viottolo ai cui bordi sono accatastate montagne di spazzatura. Mi dirigo con Marcel e altri due verso l’uscita. "Questo è il Ruanda, non l’Italia", dice uno di loro indicando l’immondizia. "E’ anche colpa nostra, che non la raccogliamo", lo ammonisce Marcel il rumeno. Mentre il cancello si accosta alle mie spalle, provo a immaginare se mai la nettezza urbana dovesse vedere file di sacchi neri ordinatamente accantonati al muro di viale Forlanini 37. Mi chiedo se si prenderebbe mai la briga di raccoglierli.
di Luca Galassi