Non siamo più la generazione di Kunta Kinte. Quando lo sceneggiato televisivo tratto dal libro ’Radici’ di Alex Haley apparve sugli schermi italiani nel 1979, l’indignazione contro il razzismo e la schiavitù avevano già da tempo consolidato in noi, popolo di emigranti, valori antichi. Ma quando, nei decenni successivi, l’incontro con quelli che avrebbero dovuto diventare l’oggetto della nostra solidarietà e della nostra accoglienza - cioè i migranti - diventò il vero banco di prova dei nostri valori, il ricordo di Kunta Kinte era ormai evaporato. A Natale non si è tutti più buoni. Almeno non lo furono gli scafisti della Yiohan, che dieci anni fa abbandonarono al loro destino 283 migranti nel Canale di Sicilia. Il loro destino fu la morte, e dopo la morte l’oblio. Un oblio che sarebbe stato eterno, se cinque anni dopo un coraggioso e ostinato giornalista di nome Giovanni Maria Bellu non avesse mostrato al mondo la conclusione della sua personale battaglia alla ricerca della verità.
Il naufragio più infausto. Le immagini di un relitto depositatosi a 106 metri di profondità tra Malta e la Sicilia, filmate con un robot subacqueo, scossero l’opinione pubblica a tal punto che si mobilitarono quattro premi Nobel. Renato Dulbecco, Dario Fo, Rita Levi Montalcini e Carlo Rubbia lanciarono un appello in cui chiedevano di cancellare quella vergogna e di recuperare i corpi che si trovavano ancora nella carcassa della nave affondata, dando loro la meritata sepoltura. Eppure, nonostante tanta mobilitazione per ciò che avvenne la notte del 26 dicembre 1996 a 20 miglia dalla località siciliana in provincia di Siracusa, giustizia non è ancora stata fatta per le 283 vittime di Portopalo. Fu una strage che rischiava di rimanere sepolta negli abissi. L’emersione dall’oblio di quello che fu il primo, e forse il più infausto, naufragio di massa di migranti della nostra storia, comincia con due fatti casuali: l’incontro di Bellu con un conoscente che gli fece incontrare "un marinaio siciliano con molte cose interessanti da raccontare", e la scoperta della nave Yiohan, capitata per un colpo di fortuna dritta dritta nelle mani delle autorità marittime italiane.
Il coraggio di un pescatore. Il marinaio di Portopalo si chiama Salvatore Lupo. Fu lui a rivelare a Bellu che dalle sue reti un bel giorno vennero fuori pantaloni, magliette, scarpe, monete e una carta d’identità di un Paese straniero, scritta in caratteri incomprensibili. Era quella di Anpalagan Ganeshu, 17 anni, tamil, di nazionalità singalese. Anpalagan era uno dei viaggiatori a bordo della Yioahn, che trasportava un carico di più di 400 migranti indiani, pakistani e singalesi, e che si scontrò la notte di Natale con la F-174, un’imbarcazione più piccola partita da Malta per ’trasbordare’ gli immigrati fino alla costa della Sicilia. Dopo l’incidente, la F-174, stipata di migranti, colò a picco, portando con se’ 283 di loro. In 29, aggrappandosi alle funi della Yiohan, riuscirono a salvarsi. Il trafficante di uomini che pilotava quest’ultima nave non lanciò l’Sos, ma fuggì facendo rotta verso la Grecia, dove scaricò gli uomini e scomparve. Una volta a terra, nessuno credette alle testimonianze dei superstiti, che furono arrestati. Una sciagura di tali dimensioni non poteva essere vera. Quegli uomini mentivano, per impietosire le autorità greche e ottenere così l’asilo politico.
Rigettati in mare. La Yiohan cambiò nome, e fu in seguito riutilizzata per un altro trasporto di esseri umani verso le coste siciliane. Intercettata e posta sotto sequestro dalle autorità italiane, solo dopo rivelò la sua vera identità. Sotto la vernice del suo nuovo nome, qualcuno si accorse che spuntavano alcune lettere: una ’h’, una ’a’, una ’n’. Ma non fu questo l’elemento che permise di scoprire cosa era accaduto nel ’96, bensì il racconto del marinaio Salvatore Lupo al giornalista Bellu. Poiché nessun cadavere fu restituito dalle acque, quale credito avrebbe potuto avere chi raccontava di una strage di proporzioni così inimmaginabili? Bellu indagò, recandosi a Portopalo e scoprendo un clima di omertà, di silenzio, di comportamenti omissivi e illegali. Il giornalista trovò però conferma di quanto raccontava Lupo. Fu un’orribile verità. Del naufragio non furono trovati corpi perchè man mano che i pescatori di Portopalo li trovavano nelle loro reti, subito li rigettavano in mare. Se avessero fatto quello che la legge impone, cioè denunciare il ritrovamento alle autorità, avrebbero rischiato di vedersi i pescherecci bloccati per giorni e giorni, con una notevole perdita economica.
Un unico imputato. Furono le autorità del paese, vice-sindaco, vigile urbano, parroco e compagnia bella, a confermare, in forma più o meno esplicita, quanto Lupo asseriva. Per avere la prova definitiva e inoppugnabile che il naufragio era avvenuto, Bellu decise di acquistare, a sue spese, un robot per la ricerca sottomarina, chiamato Rov (Remotely Operated Vehicle) e di partire verso il luogo che Lupo gli aveva indicato. Nel 2001 tutti videro le immagini del relitto della F-174, dentro il quale erano ancora imprigionati i cadaveri, ridotti a scheletri. La Procura di Siracusa aveva aperto un’ìnchiesta anni prima, quando, una volta individuati, i membri dell’equipaggio erano stati rinviati a giudizio per omicidio colposo. Ma nel 2001, grazie all’inchiesta di Bellu, si scoprì che il relitto era in acque internazionali. Tutto si bloccò. La Procura decise allora di applicare una norma del codice penale che, in casi di eccezionale gravità, consente di indagare su fatti che non riguardano cittadini italiani e non sono accaduti in Italia. Questo comportò la contestazione di un reato più grave, l’omicidio volontario plurimo aggravato, un reato contestabile però solo a due persone: il capitano della nave e il trafficante di uomini pakistano. Recentemente, i giudici francesi hanno rifiutato di estradare il capitano, che risiede oltralpe.
Dieci anni dopo. Giovanni Maria Bellu raccontò la strage di Portopalo in un libro dal titolo "I fantasmi di Portopalo", pubblicato nel 2004. A dieci anni di distanza, il processo rimane aperto per un unico imputato, l’armatore pakistano Tourab Ahmed Sheik, che vive a Malta. A dieci anni di distanza, il diciassettenne tamil, Anpalagan Ganeshu, riposa ancora in fondo al mare con 282 uomini e donne, partiti dalle loro terre per una nuova terra, dove speravano di trovare una vita migliore. La notte di Natale del 1996, quei disperati hanno trovato nel Mediterraneo uomini senza scrupoli che li hanno lasciati morire, un Paese che ha ignorato la loro tragedia e una generazione che non ricordava più chi era Kunta Kinte. Ancora c’è chi crede che Natale si è tutti più buoni.
Fleba il Fenicio, morto da due settimane, Dimenticò il grido dei gabbiani, e il flutto profondo del mare E il guadagno e la perdita. Una corrente sottomarina Gli spolpò le ossa in sussurri. Mentre affiorava e affondava Traversò gli stadi di maturità e gioventù Entrando nel gorgo.Gentile o Giudeo Tu che giri la ruota e volgi lo sguardo al vento, Pensa a Fleba, che un tempo era bello e alto come te.
(’La morte per acqua’, da La Terra Desolata di Thomas Stearn Eliot)
Luca Galassi
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