Tilde Napoleone
Siamo alla metà degli anni ’70. In America Latina, in piena guerra fredda. Un giovane console, lo stesso autore del libro, viene inviato a svolgere i suoi uffici in Argentina prima, in Cile dopo e poi ancora in Argentina. Poco incline ai servilismi di potere ma educato al senso dello Stato e alla rigida esecuzione dei propri doveri, il giovane console si trova ad affrontare, quasi all’inizio di carriera, il Cile di Pinochet, l’Argentina dei generali, ma soprattutto l’Italia dell’acquiescenza a tutto questo. E’ infatti questa la nota più dolente del suo diario. Oltre a denunciare la violenza di quei due regimi, che come armi per sopravvivere e riprodursi utilizzavano la cancellazione e la negazione di ogni opposizione, il libro rappresenta una importante testimonianza dell’atteggiamento dei governi occidentali di fronte a quello che stava succedendo. “Niente Asilo Politico”, è il titolo, perché proprio questa sarà la risposta del governo italiano di fronte alle richieste di protezione da parte dei perseguitati politici italiani o di origine italiana. L’asilo politico non sarà concesso, se non in rari casi e questo per non rovinare del tutto i rapporti con i militari.
In Cile, nel 1973, la violenza è troppo estesa ed evidente. Non si può far finta di niente di fronte all’opinione pubblica italiana che aveva seguito con interesse l’esperimento di Allende. E’ per questo che si preferisce evitare di accreditare un altro ambasciatore, dopo che il precedente si era rifiutato di tornare nel paese. Accreditarne uno nuovo significherebbe riconoscere il Golpe. “Questa sarebbe la soluzione più gradita agli USA”, ma la DC, al potere in Italia, capisce che non si può essere così espliciti. Si preferisce una politica “all’italiana”, come si ama dire, una politica del doppio binario; si evitano i passi formali di un riconoscimento del regime dei militari, ma non si interrompono i rapporti diplomatici, non si arriva alla chiusura dell’ambasciata. Le ambasciate si riempiono di rifugiati. E’ un problema; la presenza di perseguitati politici nella residenza può diventare un motivo di scontro, di disaccordo con i militari. L’Italia non ostacola l’accoglienza della prima ondata di rifugiati; ma con il tempo l’atteggiamento cambia, non si concede più niente. Il governo italiano diventa più ambiguo e sempre più ammiccante verso quel regime. Enrico Calamai non riesce “a capire la ragione di Stato, perché il governo italiano non li accoglie”. Lui è dalla parte dei rifugiati e per questo quasi da subito si troverà ai margini della vita diplomatica, di cui non riuscirà mai ad accettare apparati, convenzioni, prassi. Ancora all’inizio della sua carriera, quindi inesperto, andrà via dal Cile con la sensazione di non aver potuto fare molto per modificare quella dolorosa situazione.
Torna a Buenos Aires, siamo nel 1976. Di nuovo un colpo di Stato. In Argentina l’atteggiamento del governo italiano sarà ancora più ambiguo, più defilato. Da subito si evita di far entrare i rifugiati in Ambasciata. Ancora una volta viene chiesta acquiescenza ed è questa che il governo italiano è disposto a concedere. La città di Buenos Aires è tranquilla. Qui, a differenza che a Santiago, non si vedono carri armati in giro; i locali notturni, i ristoranti sono sempre pieni di gente. Ma la repressione è sistematica, anche se invisibile. Le persone scompaiono. A quel punto Enrico Calamai non può più tacere: “c’è un solo modo per non essere colpevole anche io: fare qualcosa, estendere i miei privilegi a chi vaga per la città in cerca di aiuto. Si oppone al comportamento degli altri, console generale, Ministero degli esteri, governo, ambasciatore, “tutti in sintonia ad evitare di turbare i rapporti con i militari”. Trova strategie per superare questo muro e aiutare concretamente tutti quelli che può, mettendo in pericolo la sua vita; utilizza la stampa, sa che ogni notizia deve arrivare in Italia. Solo così infatti, di fronte al rischio che qualche notizia trapeli, cade ogni intralcio e i perseguitati trovano aiuto. Ma la situazione in Italia non viene affrontata veramente. Anche di fronte alla sparizione di cittadini italiani, il governo non protesta, non convoca l’ambasciatore argentino, non apre i cancelli ai rifugiati. Lui viene isolato; considerato a volte pazzo, a volte un comunista, ormai è indesiderato. I suoi affanni per cercare di rendere il consolato un luogo sicuro, ad un certo punto diventano inutili. Dovrà andare via “senza essere riuscito a organizzare un gruppo di persone disposte a continuare la sua attività umanitaria”, senza essere riuscito a far comprendere all’Italia la gravità della situazione. Anche il PCI, da lui interpellato una volta tornato, preferisce far finta di non vedere. Mosca, d’altronde, non ha mai condannato i generali argentini, perché ha bisogno del loro grano. La mattina in cui con amarezza abbandonerà la sede del Pci, Enrico Calamai chiuderà con tutta questa storia, tanto di Buenos Aires non si può parlare.
Meglio dimenticare e aspettare il momento in cui sarà possibile lasciare il ministero degli affari esteri “un tunnel durato 20 anni”.
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