di Giuseppe Mosconi, Ordinario di Sociologia del Diritto e Presidente Antigone Veneto
La tragedia del duplice infanticidio di Rebibbia catalizza atteggiamenti di fondo sulla questione carceraria: Per chi vede la pena detentiva come necessaria e inevitabile, si tratta di separare, fin da subito, i bambini dalle madri detenute, tanto più se connotate da stereotipi negativi (drogate o psicolabili).
Per chi è disponibile verso possibili alternative, il rapporto mamma/bambino va preservato e attuato in strutture adeguate, che riproducano quanto più possibile i caratteri di una situazione normale. Ma di fronte al dramma non ha senso contrapporre opzioni di principio, se non si cerca di entrare a fondo nella situazione che viene a crearsi quando una madre è detenuta con i suoi piccoli.
Partiamo da un evidente paradosso cui da luogo la legge. Si intende preservare il naturale rapporto madre/bimbo nei primi anni di vita, ma si tratta di una naturalezza limitata e coartata in un contesto rigido e alterato in termini di spazi, opportunità e qualità di relazioni, che di naturale non ha quasi nulla. Ma più gravi sono gli effetti che tale contesto produce sulla qualità del rapporto madre/bambino. La reclusa infatti proietterà in modo estremizzato sul piccolo tutte le sue aspettative affettive, il suo bisogno di identitificazione rispetto ad un ambiente ostile, le sue ansie, non solo per le condizioni del bambino, ma per la sua stessa situazione e per il suo futuro, il suo bisogno di protezione. Sono elementi che possono portare ad attaccamenti parossistici. In particolare in due situazioni. Nella prima fase detentiva, dove la rottura con la vita libera è particolarmente violenta e carica di disorientanti, imprevisti e incertezze; nella fase precedente la separazione del piccolo dalla madre, per raggiunti limiti di età (3 o 6 anni), dove l’attaccamento rischia di diventare morboso, sfiorando il panico, in vista di una imminente situazione futura del tutto fuori controllo. E’ noto come, in campo affettivo, sia l’impossibilità di coltivare un legame particolarmente intenso, con un forte coinvolgimento, a scatenare paradossalmente reazioni violente. E’ quanto può essere accaduto in questo caso. La madre che non regge la tensione di gestire i figli in un contesto alieno e minaccioso, li “protegge” sopprimendoli. La sua frase “adesso sono liberi” si commenta da sola. E’ da chiedersi, a fronte di un legame mamma/bambino, fisiologico e determinate per la crescita adeguata del piccolo, quale sia il bene fondamentale che la legge è chiamata a tutelare. Quello di principio del divieto di vendita di stupefacenti (come nel caso), materia peraltro controversa nel contrasto di scelte tra illegalità e legalizzazione; quello concreto della necessaria tutela di una madre con due bambini piccolissimi, costretta invece a svolgere il proprio ruolo genitoriale in un ambiente restrittivo e inadeguato, con un carico che nessun palliativo, al di là di ogni buona intenzione, può consentire di sostenere. Questo tragico gesto fa emergere in modo emblematico ed estremo, quella strutturale frattura tra astrattezza della norma e concretezza della situazione di vita dei soggetti, intrinseca all’afflittività penale, con tutte le distorsioni e gli effetti negativi, individuali e sociali, conseguenti.
Nella fattispecie il legislatore, consapevole di ciò, ha introdotto varie possibilità di sottrarre al carcere madri con prole, o di assegnarle a strutture più adeguate. Ma il fatto che ci siano a tutt’oggi 62 bambini, ovviamente del tutto innocenti, detenuti, dato costante nel tempo, nonostante le riforme normative, sta a denunciare l’inefficacia della legge, sia per pregiudiziali formali (rischio di recidiva, assenza di domicilio), sia per condizioni di fatto (assenza di strutture, cultura restrittiva del giudici, lentezza delle procedure). Su questi aspetti quest’ultimo dramma deve portare a riflettere, in vista di soluzioni normative, culturali, materiali che preservino la sostanza irrinunciabile del rapporto genitoriale madre/bambino.