Ieri il Procuratore della Repubblica Nicola Gratteri è tornato a parlare di lavoro in carcere, riconoscendone il ruolo fondamentale per il reinserimento delle persone ma proponendo che, in assenza di risorse, questo avvenga in forma gratuita. Ma il lavoro gratuito non è altro che lavoro coatto.
Il diritto internazionale vieta i lavori forzati. La storia delle tirannie – nazionalsocialista ma anche stalinista – è una storia iconograficamente nota al mondo anche tramite le immagini dei lavori forzati. Auschwitz-Birkenau era un campo di lavori forzati. Così recitano le Regole Penitenziarie Europee: «Il lavoro penitenziario deve essere considerato come un elemento positivo del trattamento, della formazione del detenuto e della gestione dell’istituto… Nella misura del possibile, il lavoro deve essere tale da conservare e aumentare la capacità del detenuto di guadagnarsi normalmente la vita dopo la sua dimissione... L’organizzazione e il metodo di lavoro negli istituti devono avvicinarsi, nella misura del possibile, a quelli che regolano un lavoro nella società esterna, al fine di preparare il detenuto alle condizioni normali del lavoro libero… Deve essere previsto un sistema equo di remunerazione del lavoro dei detenuti».
Ce lo dice anche l’Europa dunque che il lavoro non può che essere retribuito. Lo dicono secoli di storia di sfruttamento umano. Lo afferma perentoriamente l’articolo 8 del Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966 entrato in vigore in Italia nel 1976: «A nessuno può essere richiesto di svolgere lavoro forzato». Non vi sono eccezioni.
Il lavoro gratuito e terapeutico non è altro che un altro modo di qualificare il lavoro forzato. D’altronde in una società libera neanche le imprese vogliono il lavoro coatto e gratuito in quanto si andrebbe a manipolare il mercato all’esterno rendendolo non competitivo. L’unico lavoro gratuito ammissibile dal mercato resterebbe quello non produttivo, inutile. Sorprende che si auspichi un ritorno al lavoro gratuito. La questione penitenziaria è una questione complessa che ha a che fare con la società, con il diritto interno e internazionale, con i diritti umani, con l’urbanistica e l’architettura, con il welfare, con il fisco, con la sicurezza.
Il sistema penitenziario italiano non ha bisogno di taumaturghi e soluzioni giustizialiste. Necessita di razionalità e umanità, doti presenti in tanti operatori – direttori, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi, criminologi, volontari, religiosi, poliziotti – che da decenni si impegnano per una pena rispettosa dell’articolo 27 della Costituzione.