di Patrizio Gonnella su il manifesto dell'11 luglio 2023
Negli ultimi giorni si sono riaccesi i riflettori intorno al rapporto tra giustizia e politica. Abbiamo ascoltato le stesse parole che hanno tristemente caratterizzato il dibattito pubblico a partire dall’ingresso nello spazio pubblico di Silvio Berlusconi. Il garantismo è una teoria giuridico-costituzionale troppo seria per essere vilipesa, violentata, strumentalizzata da chi ha costruito un modello repressivo di massa. Chiunque abbia sostenuto che andasse criminalizzata la solidarietà verso i migranti si trova agli antipodi della teoria garantista. Chiunque non lotti per bandire la tortura dalle nostre caserme e prigioni non potrà mai definirsi garantista. Chiunque si adoperi per neutralizzare i processi in corso per tortura nelle aule di giustizia italiane, pensando di abrogare o modificare la legge del 2017 che aveva finalmente introdotto il crimine nel codice penale italiano, non ha diritto a usare per sé stessi la parola garantista.
Chiunque non si preoccupi dell’habeas corpus o delle condizioni degradate di vita negli istituti penitenziari non è un garantista.
I dati del 30 giugno 2023 ci dicono che il numero dei detenuti è salito fino a 57mila e 500. Oltre 5mila unità in più rispetto al 2015 e con un tasso di affollamento effettivo che raggiunge il 120%. Il sovraffollamento non è una calamità naturale e non è neanche la conseguenza, statistiche alla mano, di un aumento della delittuosità, visto che tra il 2015 e il 2021 c’è stato un calo ponderoso di oltre mezzo milione di delitti denunciati. Dunque, il numero dei detenuti cresce sostanzialmente a causa di una maggiore severità dei giudici che infliggono pene più alte e che concedono in minor misura rispetto al passato sanzioni o misure alternative alla detenzione.
Si tende a far scontare l’intera condanna in carcere a un detenuto nel nome di una presunta certezza della pena, brandita come slogan populista piuttosto che come argomento razionale.
Si dà per scontato che l’unica pena sia la galera, per cui l’espressione ‘certezza della pena’ viene assimilata a ‘certezza della pena carceraria’. Essere garantisti significa impegnarsi per liberare il sistema punitivo dalle scorie inquisitorie e violente di un modello repressivo che imprigiona tossicodipendenti, consumatori di sostanze, poveri, persone affette da disagi psichici, i tanti esclusi da un welfare moribondo. Qualora sommassimo tutti i detenuti socialmente vulnerabili, considerati scarti ed eccedenze umane di un sistema liberista feroce, raggiungeremmo i due-terzi della popolazione detenuta.
Siamo in piena estate e in galera si sta male. Fa caldo. In tantissimi istituti mancano i ventilatori e non è possibile rinfrescare l’acqua. Vivere in tre o in quattro, in una cella di dieci o quindici metri quadri, bagno incluso, a 35 gradi, è un’esperienza durissima. Saltano i nervi. Direttori, educatori, medici e poliziotti sono lasciati soli a gestire situazioni molto complicate. Una vita è una vita. Sempre. Dall’inizio dell’anno si sono suicidati trentaquattro detenuti nelle carceri italiane. Ci avviciniamo ad agosto, il mese più difficile dell’anno in galera. L’anno scorso nel mese di agosto si ammazzarono ben sedici detenuti. Va evitato un altro agosto tragico: le carceri vanno riempite di iniziative all’aperto; ai detenuti va assicurata la possibilità di contattare quotidianamente per telefono o con video-chiamata i propri affetti; vanno comprati ventilatori e frigoriferi; va gratificato il più possibile, anche economicamente, il personale penitenziario. Poche cose senza le quali nessun governante potrà mai definirsi garantista.