di Patrizio Gonnella su il manifesto del 08/08/2024
Centosessantadue detenuti morti dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. Un numero impressionante se si considera che in tutto il 2023 i morti sono stati 157. In soli sette mesi il sistema penitenziario ha cumulato più morti di tutto lo scorso anno.
Nel nostro tragico pallottoliere il numero dei suicidi arriva fino a sessantacinque, più almeno cinque con cause di decesso da accertare. Da decenni, e non si capisce perché, l’amministrazione penitenziaria prova a ridurre la portata numerica dei suicidi segnalando come morte da accertare o da overdose ogniqualvolta una persona muore dopo avere inalato il gas del fornelletto usato per cucinare.
È questa una modalità con la quale le persone si tolgono la vita da sempre negli istituti di pena. Non si capisce come possa accadere ancora che solo in pochissime prigioni siano messe a disposizione le più sicure cucine a induzione e nella restante gran parte, invece, si continuino a usare i fornelletti da campeggio. È uno dei tanti segni della premodernità nella quale versa il sistema penitenziario, refrattario a innovarsi.
I morti sono anche l’effetto di una pena che si vuole sia espiata in forma medievale, che sia vendetta pubblica. Ogni conteggio al ribasso dei suicidi serve solo a gettare polvere per evitare che si veda in quali condizioni drammatiche versano le carceri. Una condizione disumana nella quale manca lo spazio vitale (sono 14mila le persone in più rispetto alla capienza regolamentare), i detenuti sono costretti a stare chiusi nelle loro celle strapiene e senza adeguata ventilazione e refrigerazione fino a 20 ore al giorno, mancano psichiatri, psicologi, mediatori culturali, operatori sociali che possano prendere in carico i mille problemi di persone con problemi psichici, disagio, dipendenze da sostanze, solitudine e abbandono socio-sanitario.
Il numero dei suicidi è dunque elevatissimo. In un Paese, l’Italia, che ha tra le persone libere un basso tasso suicidario, nelle galere ci si ammazza quasi venti volte di più che in libertà. Dunque, un fallimento per chi ha il dovere di custodia legale delle persone ristrette. Di fronte a questo fallimento, alle proteste dei detenuti, alla fatica immensa del personale penitenziario, a partire da direttori, poliziotti ed educatori, il governo reagisce criminalizzando ogni forma di protesta, anche nonviolenta, e disobbedienza.
Se tutti coloro che hanno protestato nelle scorse settimane, minori o adulti, dovessero incorrere nel nuovo delitto di rivolta nonviolenta inserito dal governo nell’ultimo pacchetto sicurezza e rivendicato in ogni incontro pubblico del sottosegretario Delmastro, avremmo alcune migliaia di detenuti, una parte dei quali ragazzini, che rischiano di scontare fino a otto anni in più di galera. Altro che svuotacarceri.
Dall’altro lato le misure proposte nel decreto legge non cambieranno sostanzialmente il volto e i numeri del carcere. Un decreto nel quale è comparsa la solita norma propagandistica sull’edilizia penitenziaria. Viene stanziato oltre un milione per finanziare la nuova struttura commissariale per l’edilizia carceraria. In sostanza si tratta di soldi per pagare consulenti e mobili da ufficio. Se non ci saranno inchieste (come è accaduto più volte nel passato), se il commissario e i suoi consulenti, ben retribuiti, saranno particolarmente efficienti, forse tra un lustro avremo qualche centinaio di posti.
Un bluff, così come è un bluff raccontare la bufala del trasferimento dei detenuti stranieri nei loro Paesi. A parte che nell’area della Ue, per quanti ne possiamo trasferire altrettanti detenuti italiani all’estero verrebbero rimandati in Italia, va detto che non ci sarà Paese povero che si riprenda persone da custodire nelle proprie galere.
Nel frattempo nelle carceri c’è sofferenza, morte, fatica. In un agosto che in carcere si presenta feroce si spera che almeno due cose possano accadere. La prima riguarda la Polizia penitenziaria. Si sentono voci importanti da parte di alcuni sindacati che si differenziano dalla narrazione proposta da altre organizzazioni molto vicine alle destre di governo. Queste voci e quelle dei tanti operatori di frontiera devono moltiplicarsi: no a un sistema che toglie dignità a custoditi e custodi. Una dignità che non si riacquista con qualche decina di euro o con un numero insufficiente di assunzioni.
La seconda riguarda il mondo dei media. Insieme al manifesto anni addietro lanciammo una campagna perché i giornalisti potessero entrare in carcere e documentare le condizioni tragiche di vita dentro gli istituti. Il carcere aperto ai media è durato qualche anno. Ora siamo tornati all’opacità, alla negazione per le telecamere di entrare nelle sezioni. Ci appelliamo all’Agcom, a tutte le forze parlamentari perché spingano il ministero della giustizia a far entrare i giornalisti, anche con le telecamere, nelle sezioni di Regina Coeli a Roma, San Vittore a Milano, Dozza a Bologna, Poggioreale a Napoli, Sollicciano a Firenze e raccontare cosa significa vivere in un carcere affollato che degrada le persone a cose, che produce morte e inutile sofferenza.