CITTA' | TRIBUNALE | ESTREMI DEL PROVVEDIMENTO | SINTESI SENTENZA | SENTENZA |
Roma | Corte di Cassazione | Sentenza n. 52819 del 9/9/2016 | La superficie a cui ha diritto un detenuto perché la detenzione sia
degna è quella calpestabile: nel calcolo dello spazio non va incluso
quello occupato dai mobili. Un detenuto della casa circondariale di Spoleto presenta un reclamo in cui lamenta una violazione dell'art. 3 della CEDU. A suo dire egli è detenuto all'interno di uno spazio troppo angusto, al punto che la reclusione equivale a un trattamento disumano e degradante. Secondo il ricorrente viene violata una norma dal carattere assoluto, cui in nessun caso si potrebbe venir meno, neanche in nome di un preteso interesse generale. Il detenuto richiede al Tribunale di Sorveglianza di Perugia di essere risarcito, come previsto dagli artt. 35 bis e ter dell'ordinamento penitenziario. Nel valutare il caso, il Tribunale di Sorveglianza calcola la superficie e arriva alla conclusione che il reclamante ha avuto a disposizione 4,64 mq in un primo momento e 3,75 mq in un secondo momento. La soglia fissata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo perché non ci sia violazione dell'art. 3 è di 3 mq. Il caso arriva in secondo grado, dove viene affrontato il nodo del criterio col quale lo spazio va calcolato. Il giudice di secondo grado, contrariamente al giudice di sorveglianza, ritiene che dal computo della superficie utile a vadano esclusi il bagno e i mobili; non il letto invece, che rappresenta un'utile "superficie di appoggio". Il caso arriva poi in Cassazione, che non condivide la modalità di calcolo adottata in precedenza: il letto non può in effetti essere considerato una superficie utilizzabile per lo svolgimento delle attività sedentarie, dunque non va calcolato. Assieme agli altri mobili esso limita la libertà di movimento del detenuto. Poiché a suo avviso la superficie è stata calcolata erroneamente, la Cassazione dispone un annullamento con rinvio al Tribunale di Sorveglianza, di modo che essa venga ricalcolata. |
|
Strasburgo | Corte Europea dei Diritti dell'Uomo | Torreggiani and Others v. Italy, 08.01.2013, application no. 43517/09. | Sentenza pilota: il sovaffollamento e la violazione dell'art. 3
riguardano il sistema penitenziario italiano nel suo insieme. Per
risolvere un problema sistemico e strutturale è necessario che lo Stato
prenda provvedimenti. Diversi detenuti delle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza presentano un ricorso per violazione dell'art. 3 della CEDU (trattamenti disumani e degradanti). La Corte ritiene che i richiedenti hanno subito una situazione di forte sovraffollamento, aggravata dalla mancanza di servizi indispensabili come acqua calda, une ventilazione adeguata e una quantità di luce sufficiente: si è dunque in presenza di una violazione dell'art. 3. Ma la Corte non si limita a questo: aggiunge che la violazione non è il frutto di una situazione contingente e particolare ma che c'è un problema sistemico e strutturale, dato da un sovraffollamento diffuso che produce una violazione generalizzata dell'articolo 3. Per questi motivi, dettati dalla grande quantità di reclami aventi lo stesso oggetto, la Corte emette una sentenza pilota: dà un anno di tempo allo Stato italiano per prendere dei provvedimenti strutturali che mettano fine a questa violazione sistemica della Convenzione. |
|
Strasburgo | Corte Europea dei Diritti dell'Uomo | Sulejmanovic v. Italy, 16.07.09, application no. 22635/03. | Caso Sulejmanovic: laddove la detenzione avviene in uno spazio
inferiore a 3 mq l'art. 3 della CEDU è violato. Nel periodo che va dal novembre 2002 all'aprile 2003 un detenuto del carcere di Rebibbia condivide la cella con altri sei detenuti. Lo spazio a disposizione di ogni detenuto è di 2,7 metri quadri, ben al di sotto degli standard suggeriti dal Comitato per la prevenzione della Tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti. In questo spazio il detenuto Sulejmanovic passa circa 18 ore al giorno. La Corte ritiene il reclamo fondato e condanna lo Stato italiano per violazione dell'art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo. |
|
Strasburgo | Corte Europea dei Diritti dell'Uomo | Muršić v. Croatia, 20.10.2016, application no. 7334/13. | Sentenza conservatrice: la mancanza di spazio vitale durante la
detenzione può essere compensata da altri fattori. Il signor Muršić è detenuto nel carcere di Bjelovar: per 50 giorni è ristretto in una cella condivisa con altre persone. Al variare del numero di compagni di cella varia la superficie di cui dispone ogni singolo detenuto: quanti più detenuti ci sono in cella, tanto meno il diritto a uno spazio vitale degno è garantito. Per 27 giorni consecutivi Muršić - come i suoi compagni di cella - dispone di una superficie di 2,62 metri quadri. A questi periodi ne seguono degli altri in cui Muršić si muove sempre in meno di 3 metri quadri, ma sono periodi non consecutivi e considerati brevi dalla Corte, poiché non oltrepassano gli 8 giorni. Oltre alla mancanza di spazio, Muršić lamenta altre violazioni dei propri diritti: l'impossibilità di lavorare in carcere, l'inadeguatezza della struttura, la mancanza di attività. Di fronte al caso, la Grande Camera della Corte emette una sentenza in parte conservatrice, stabilendo che nei 27 giorni in questione c'è stata una violazione dell'art. 3 della CEDU ma che negli altri periodi, quelli inferiori a 8 giorni, non c'è stata violazione per diversi motivi: perché era comunque possibile trascorrere del tempo fuori dalla cella, perché la durata della reclusione disagiata è stata breve e frammentata e perché il detenuto poteva accedere a delle attività esterne. La sentenza, pronunciata a maggioranza, con 10 voti favorevoli e 7 contrari, chiama in causa dei fattori allevianti che compensano la mancanza di spazio, non più considerata come una violazione di per sé dell'art. 3. Essa rappresenta dunque un passo indietro rispetto agli orientamenti precedenti della Corte (cf. sentenza Torreggiani e Sulejmanovic). |
|
Roma | Tribunale | Ordinanza 6852/2015, del 4/06/2015 | Laddove nel corso della reclusione siano carenti luce, aria,
riscaldamento, intimità e possibilità di uscire dalla cella si ha una
violazione dell'art. 3 della CEDU. Nel carcere di Rebibbia un detenuto condivide con 5 persone una cella di 24 metri quadri. Al netto di mobili e arredo, lo spazio che gli è riservato è inferiore ai 3 metri quadri: dunque chiede un risarcimento per violazione dell'art. 3 della CEDU. Il Tribunale di Roma effettua un calcolo che non tiene conto dello spazio occupato dai mobili, ma che include nel computo quello occupato dall'arredo della cella, ovvero dal tavolino amovibile, dagli sgabelli rimovibili, da stipetti e dai letti. Con questi criteri, il detenuto dispone di 3,14 metri quadri. Tuttavia il detenuto non ha l'uso riservato del bagno, nella sua cella l'aerazione e l'illuminazione con luce naturale sono carenti; manca un riscaldamento di buona qualità; l'accesso ai passeggi all'aria aperta è limitato; manca la possibilità di avere una totale intimità; infine, non gli è possibile passare almeno 8 ore al giorno al di fuori della cella e usufruire degli spazi di socialità. Alla luce di tutto ciò, il Tribunale ritiene che l'art. 3 della CEDU sia stato violato. |
|
Napoli | Tribunale | Decreto N. 4543/2015, del 10/10/2015 | Allorché si è reclusi in uno spazio inferiore ai 3 metri quadri per
detenuto o quando vi siano carenze importanti di luce o areazione si è
in presenza di una violazione dell'art. 3 della CEDU. Un detenuto recluso nel carcere napoletano di Poggioreale presenta ricorso per violazione dell'art. 3 della CEDU. Chiede di essere risarcito dallo Stato perché è stato detenuto in una cella con 10 altre persone, in uno spazio che non rispetta i parametri stabiliti dalla CEDU. Il Tribunale di Napoli accoglie il ricorso e dice che lo spazio a disposizione del detenuto è stato inferiore a 3 metri quadri per 63 giorni: la metratura della cella va infatti calcolata senza tenere conto dei mobili. Per il resto del tempo, nonostante i metri a disposizione siano stati più di 3, l'art. 3 della CEDU è stato comunque violato, non essendo stati rispettati gli altri parametri indicati dalla giurisprudenza EDU: l'esistenza di aerazione, illuminazione, di un bagno in locale separato, la possibilità di uscita dalla cella (e in questo caso il detenuto passava fuori dalla cella solo 2 ore al giorno). |
|
Bari | Tribunale | Ordinanza 3546/2016 del 12/02/2016 | A determinare la violazione dell'art. 3 contribuiscono diversi
fattori non spaziali. Un detenuto fa ricorso perché reputa violato nei suoi confronti l'art. 3 della CEDU. Il Tribunale gli dà ragione: nel calcolo dello spazio disponibile non vanno contate la superficie del bagno annesso né quella occupata da armadi, stipetti (anche se pensili) e letti. Va invece inclusa la superficie occupata da tavoli, sedie e sgabelli, perché non sono fissi e perché sono comunque utilizzabili per lo svolgimento delle attività diurne. Nel riconoscere violato l'art. 3, il Tribunale tiene conto anche delle ore giornaliere che il detenuto passa fuori dalla cella, delle attività svolte in carcere e della presenza di ratti all'interno dell'istituto. |
|
Spoleto | Ufficio di sorveglianza | Ordinanza 1730/2015 | Nel calcolo della superficie disponibile per ogni detenuto non vanno
inclusi né il bagno né gli spazi occupati dagli arredi fissi. Un detenuto transitato dalle carceri di Reggio Calabria, Palmi, Livorno, Ancona, Roma, Genova e Terni presenta ricorso per violazione dell'art. 3 della CEDU, ritenendo di essere stato ristretto in uno spazio detentivo troppo angusto. Il Tribunale di Spoleto dà la sua interpretazione di come questo spazio vada calcolato, al fine di verificare se il criterio dei 3 metri quadri al di sotto dei quali si è in presenza di un trattamento disumano è stato rispettato o meno. Per il Tribunale vanno calcolati gli spazi rivolti alle attività e al riposo e quelli occupati dal letto e dagli arredi mobili (e dunque amovibili: sedie e tavolo). Non vanno invece presi in considerazione lo spazio destinato all'igiene personale (cf. art. 7 Dpr 230/2000) e quello occupato dagli arredi fissi (cf. Cassazione 5728/2014). |
|
Perugia | Tribunale di sorveglianza | Ordinanza 1568/2015 | Violazione dell'articolo 3 della CEDU: 1) nel computo della
superficie di una cella non va calcolata l'area occupata dal tavolino;
2) in caso di violazione il detenuto va risarcito con una riduzione
della pena. Un detenuto presenta ricorso perché ritiene vi sia stata nei sui confronti una violazione dell'art.3 della CEDU. Il Tribunale cita nella sua ordinanza due i criteri possibili nel calcolo della superficie a disposizione dei detenuti: 1) il primo detrae dal calcolo la superficie del bagno annesso e le superfici di ingombro degli arredi fissi, a eccezione del letto personale del detenuto; 2) il secondo oltre alle superfici di 1), detrae anche la superficie del tavolo. Il secondo criterio è ritenuto più giusto. Calcolando in tal modo la superficie a disposizione del detenuto che ha presentato ricorso è di 2,92 metri quadri. Il Tribunale dà dunque ragione al ricorrente e gli concede, a titolo risarcitorio, 34 giorni di riduzione della pena, a fronte di 334 giorni di violazione dell'art. 3. |
|
Strasburgo | Corte Europea dei Diritti dell'Uomo | Sentenza n.3 del 18/01/2011 (Scoppola c. Italia) | Caso Scoppola: la privazione del diritto di voto non può avvenire in
maniera automatica. Il signor Scoppola è condannato all'ergastolo per omicidio aggravato e altri reati. Alla pena perpetua consegue in maniera automatica l'interdizione dai pubblici uffici, e da questa deriva la perdita del diritto di elettorato (passivo e attivo). Le interdizioni sono la conseguenza di un automatismo. Scoppola presenta ricorso per la perdita del diritto all'elettorato, sostenendo che il venir meno di questo diritto - processo automatico per pene superiori ai 5 anni - sia contrario all'art. 3 del protocollo n. 1 alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ossia all'articolo che difende lo svolgimento di elezioni regolari e la libera manifestazione del pensiero. La Corte dà ragione a Scoppola: la privazione di un diritto così importante - non illegittima di per sé - non può avvenire in maniera automatica e generale, senza valutazione del singolo caso. Vengono ribaditi i principi già elencati nella sentenza Hirst c. Regno Unito: l'Italia è dunque condannata per violazione dell'art. 3 del protocollo n. 1 alla Convenzione. |
|
Strasburgo | Corte Europea dei Diritti dell'Uomo | Hirst (No. 2) v. the United Kingdom, 06.10.2005, application no. 74025/01. | Caso Hirst: la privazione del diritto di voto non può avvenire in
maniera automatica. Hirst è un detenuto condannato all'ergastolo a cui è stato imposto il divieto assoluto di voto. Ritenendo violato l'art. 3 del protocollo 1 alla Convenzione dei diritti dell'uomo (diritto a libere elezioni) presenta ricorso alla CEDU. La Corte gli dà ragione, sostenendo che sebbene tale articolo della Convenzione lasci ai paesi europei contraenti lo spazio di applicare misure personali tra cui la preclusione del diritto di voto - in determinate circostanze - in questo caso l'articolo è violato, perché il provvedimento privativo del diritto di voto è automatico e applicato a tutti i detenuti con misure cautelari definitive. Di fatto è esteso a oltre 48 mila individui. Un provvedimento generale di questo tipo non tiene inoltre in considerazione le raccomandazioni della Corte europea, che ammette restrizioni dell'accesso al voto per i detenuti solo su base individuale, quando le ragioni del provvedimento siano legate a specifici crimini commessi, pericolosità o simili. |
|
Strasburgo | Corte Europea dei Diritti dell'Uomo | Greens and M.T. v. the United Kingdom, 23.11.2010, application nos. 60041/08 & 60054/08. | Sentenza pilota: la privazione del diritto di voto non può avvenire
in maniera automatica. Nonostante la sentenza Hirst contro Regno Unito (no. 2) - con cui la Corte aveva condannato il Regno Unito per l'esclusione automatica dal voto subita dai detenuti in violazione dell'art. 3 del Prot. 1 della Convenzione - il Regno Unito continua a violare l'art. in questione. Due detenuti presentano allora ricorso perché subiscono il divieto di partecipazione politica. La Corte condanna nuovamente il Regno Unito, ma questa volte decide di applicare al caso la procedura di sentenza pilota (art.46): in considerazione della mancanza di provvedimenti a seguito della Hirst e dei numerosi reclami con lo stesso oggetto presentati alla Corte, essa sollecita il Regno Unito a presentare delle proposte di modifica della propria legge tali da consentire un più ampio accesso al voto e abolire il divieto automatico. |
|
Roma | Corte Costituzionale | Sentenza n. 76 dell'8/3/2017 | La tutela del minore viene prima della potestà punitiva dello Stato.
Le madri condannate in base all'art. 4 bis hanno diritto ai domiciliari,
anche dopo che il figlio abbia compiuto 3 anni. Una madre di un bimbo di meno di 3 anni è condannata a 7 anni di reclusione per violazione del testo unico sulle droghe. Data l'età del figlio, può beneficiare della detenzione domiciliare. All'approssimarsi del terzo anno di età chiede che al giudice del Tribunale di Bari che la misura sia prorogata. Richiede al contempo di sollevare questione di legittimità costituzionale riguardo all'articolo 47 quinquies, comma 1-bis della legge 354 del 1975, che esclude dal beneficio della detenzione domiciliare i condannati in base all'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, ovvero in base a una norma con cui è stato costruito uno statuto differenziale per dei soggetti ritenuti socialmente pericolosi in conseguenza del tipo di reato commesso (e non di una valutazione ad hoc). Il Tribunale di Sorveglianza di Bari solleva la questione di fronte alla Corte Costituzionale e quest'ultima la ritiene fondata, dichiarando l'articolo illegittimo e facendo venir meno le parole «Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell'articolo 4-bis,». L'articolo è giudicato in contrasto con gli artt. 3, 29, 30 e 31 della Cost.: se restasse in vigore, la potestà punitiva dello stato prevarrebbe sulle esigenze del minore, il che non è possibile. Le madri (o i padri, nel caso in cui queste siano decedute) di bambini di età inferiore o pari a dieci anni, e non solo a 3, possono dunque accedere alla detenzione domiciliare speciale senza passare prima da una fase di custodia carceraria, anche quando sono condannate per uno degli articoli di cui all'art. 4-bis dell'op. |
|
Roma | Corte Costituzionale | Sentenza n. 239/2014 | E' incostituzionale il divieto di concessione della detenzione
domiciliare alla madre di un bambino di meno di dieci anni, allorché
tale divieto è basato sulla gravità del reato commesso e sulla mancata
collaborazione con la giustizia. Una detenuta di origine nigeriana, madre di un bambino di meno di dieci anni affidato ai servizi sociali, chiede al Tribunale di Firenze che le venga concessa la detenzione domiciliare speciale prevista dall'art. 47 quinquies della legge 354/1975 per le madri con figli di età inferiore ai 10 anni. In tal modo potrebbe trasferirsi in una struttura di accoglienza del Comune di Firenze e prendersi cura del figlio, che non avrebbe più bisogno di essere affidato ai servizi sociali. L'art.4-bis della legge 354 comprende però la detenzione domiciliare speciale tra i benefici penitenziari da cui si è esclusi allorché si sono commessi alcuni delitti gravi e laddove non c'è collaborazione con la giustizia (salvo il caso in cui la collaborazione non sia irrilevante o impossibile). Tra i reati commessi dalla donna ci sono la riduzione o il mantenimento in schiavitù o servitù e tratta di persone, che rientrano nel divieto previsto dall'art.4-bis. Dal momento che questa non sta collaborando con la giustizia, al suo caso andrebbe applicato l'art.4-bis. Il Tribunale di Firenze ritiene che la sua richiesta non potrebbe venire accolta, ma solleva al contempo questione di legittimità costituzionale dell'art.4-bis sulla base degli articoli 3, 29, 30 e 31 Costituzione, in quanto tale articolo fa pesare sul minore - a difesa del cui superiore interesse è posto l'art.47 quinquies - le conseguenze delle gravi responsabilità penali della madre e della sua scelta di non collaborare con la giustizia, facendo venir meno in tal modo la tutela costituzionale della famiglia. La Corte Costituzionale dichiara fondata la questione: l'estensione della detenzione domiciliare operata dall'art.47 quinquies obbedisce alla tutela dell'interesse dei bambini, qualificato come superiore dall'art.3 comma 1 della Convenzione di New York del 1989 e dall'art.24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Facendo rientrare la detenzione domiciliare speciale nella previsione dell'art.4-bis, il costo della strategia di lotta al crimine organizzato viene traslato su un soggetto estraneo e il cui interesse superiore va tutelato. Il fatto che l'art. 4-bis abbia anche una funzione rieducativa non cambia la conclusione: se si sceglie di subordinare l'interesse del minore alle esigenze di protezione della società dal crimine bisogna che queste siano verificate in concreto e non in astratto, come nell'art.4-bis.Dal momento che il testo dell'art.4-bis, anche alla luce del sistema dell'ordinamento penitenziario, non può essere interpretato conformemente alla Costituzione escludendo dal suo campo di applicazione la detenzione domiciliare speciale, la norma è incostituzionale nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari la detenzione domiciliare speciale dell'art.47 quinquies. La Corte estende l'incostituzionalità alla detenzione domiciliare in generale (art.47-ter), perché coloro che devono scontare pene meno elevate si trovino ne campo di applicazione dell'art.4-bis. |
|
Roma | Corte Costituzionale | Sentenza n.301/2012 | La Corte afferma che in carcere persiste un problema che riguarda il
diritto alla sessualità, ma che sta al legislatore risolverlo, e non
alla Corte. Un detenuto presenta ricorso al Tribunale di Sorveglianza di Firenze, poiché ritiene che il suo diritto all'intimità sia stato violato dalla presenza continua durante le visite e i colloqui del personale penitenziario. Il controllo visivo di questi ultimi è previsto dall'articolo 18 secondo comma dell'ordinamento penitenziario. Il ricorso è accolto e Il Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze solleva questione di costituzionalità: secondo lui l'art. 18 viola gli art. 2 ("la Repubblica rispetta i diritti inviolabili dell'uomo"), 3 ("la repubblica rimuove gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana"), 27 ("le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità"; "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato"), 29 ("la Repubblica riconosce i diritti della famiglia"), 31 ("la Repubblica protegge la maternità [...] favorendo gli istituti necessari a tale scopo") e 32 ("la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività [...] la legge non può in alcun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana"). La Corte risponde con una sentenza monitoria: dice che la questione riflette un'esigenza fortemente avvertita, e che è dovere del legislatore legiferare. Aggiunge che la questione è inammissibile, che il problema dell'affettività dei detenuti non verrebbe risolto dall'eliminazione del controllo a vista e che questa eliminazione avrebbe conseguenze eccessive in termini di sicurezza e prevenzione dei reati. Spetta dunque alla discrezionalità del legislatore, e non alla Corte Costituzionale, prendere le scelte di merito su come risolvere il problema dell'esercizio del diritto alla sessualità. |
|
Roma | Corte Costituzionale | Sentenza n. 135 del 7/06/2013 | E' il Magistrato di sorveglianza a garantire i diritti dei detenuti.
L'Amministrazione deve applicare le sue decisioni. Un detenuto si trova nel carcere di Rebibbia in regime di 41-bis, il cosiddetto carcere duro. In seguito a un provvedimento dell'Amministrazione che vieta la visione di Rai Sport, Rai Storia e Mtv ai detenuti in 41-bis, smette di guardare questi canali. Presenta però ricorso al giudice di sorveglianza, ritenendo leso il proprio diritto all'informazione. Il Magistrato di Sorveglianza accoglie il reclamo: le restrizioni aggiuntive a quelle già durissime previste dal 41-bis si giustificano solamente se c'è un pericolo effettivo di comunicazione tra il detenuto e l'organizzazione criminale di appartenenza. Altrimenti sono vessazioni gratuite. Secondo il giudice questo pericolo non c'è per i canali Rai Sport e Rai Storia. C'è con Mtv, perché su Mtv si possono mandare degli sms, il che potrebbe consentire ai detenuti di ricevere informazioni dall'esterno. Il Ministro della Giustizia ingiunge però al Direttore del carcere di non dare esecuzione al provvedimento del Magistrato di sorveglianza, che solleva di fronte alla Corte Costituzionale la questione del conflitto di attribuzione tra poteri dello stato. La Corte dà ragione al Magistrato, affermando il principio secondo cui «le decisioni del magistrato di sorveglianza, rese su reclami proposti da detenuti a tutela di propri diritti..., devono ricevere concreta applicazione e non possono essere private di effetti pratici da provvedimenti dell'Amministrazione penitenziaria o di altre autorità». Il giudice ha dunque il potere di sindacare sulla congruità del contenuto del regime detentivo speciale. Esce rafforzato il ruolo del magistrato di sorveglianza nel preservare la legalità nell'esecuzione delle misure detentive. |
|
Spoleto | Tribunale di Sorveglianza | Ordinanza n.772 del 9/9/2017 | Questione di legittimità costituzionale, in attesa di pronuncia: è
costituzionale impedire che il cibo venga cotto? Un detenuto in regime di 41-bis ha presentato un reclamo presso la magistratura di Sorveglianza di Spoleto, al fine di sollevare la questione di illegittimità costituzionale del divieto impostogli, in base al co. 2-quater lett. f), di “acquistare cibi che richiedono cottura, nonché cucinare quelli di cui gli è consentito l'acquisto (poiché consumabili anche crudi con la conseguenza di subire, in caso di violazione, una sanzione disciplinare”, e ciò, nonostante avesse lamentato una serie di patologie alleviabili con un dieta a base di cibi cotti. Il Magistrato di Sorveglianza Gianfilippi ha ritenuto non manifestamente infondata la questione. Sul punto dovrà dunque pronunciarsi la Corte Costituzionale. |
|
Roma | Corte Costituzionale | Sentenza n.22/2017 | Per la Corte Costituzionale è legittimo impedire ai detenuti in
41-bis di ricevere e spedire libri. In seguito al reclamo di un detenuto in regime di carcerazione speciale 41-bis, il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto solleva con ordinanza di fronte alla Corte la questione di illegittimità costituzionale rispetto all'art. 41-bis, comma 2-quater, lettere a) e c), nella parte in cui prevede il divieto di spedire e ricevere libri e riviste. Il Magistrato ipotizza il contrasto dell’articolo 41-bis con gli articoli 15, 21, 33, 34 e 117 della Costituzione, relativi al diritto allo studio, all'informazione e al recepimento di normative quali l'art. 3 della CEDU, che preserva la dignità umana. La Corte ritiene tuttavia infondata la questione di illegittimità costituzionale, ritenendo che le restrizioni siano legittimate da esigenze di sicurezza e che il diritto allo studio e all'informazione non sono lesi in sé, in quanto l'articolo si limita a regolamentare le modalità tramite le quali il detenuto può venire in possesso di libri e riviste (essendo salva la possibilità di ricorrere all'amministrazione). |
|
Roma | Corte Costituzionale | Sentenza 143/2013 | Incomprimibilità del diritto di difesa: i detenuti in 41- bis devono
poter vedere i propri avvocati senza restrizioni. Un detenuto della casa circondariale di Viterbo in regime di 41-bis fa richiesta di colloquio con il suo difensore ma gli viene rifiutata. La motivazione è che avrebbe raggiunto i limiti "quantitativi" previsti dalla normativa dopo le modifiche del 2009, quando nell'art 41-bis, comma 2-quater, lett. b), si introducevano dei limiti ai colloqui con gli avvocati sulla base del «sospetto» che questi «possano prestarsi a fungere da intermediari per illeciti scambi di comunicazioni» nell'ambito dei sodalizi criminosi. I limiti erano quelli applicati ai colloqui coi familiari. Il detenuto presenta reclamo e il Magistrato di sorveglianza di Viterbo solleva questione di legittimità costituzionale, ritenendo tali restrizioni in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 della Cost. La Corte ritiene fondata la questione e dichiara l'illegittimità del provvedimento, considerato come una compressione del diritto alla difesa, giacché i difensori «non potrebbero essere normativamente gravati del sospetto di porsi come illecito canale di comunicazione». |
|
Roma | Corte di Cassazione | Sentenza 14 marzo 2014 n.12286 | La perquisizione corporale di un detenuto mediante denudamento deve
essere specificamente motivata. La Cassazione convalida l'ordinanza con cui il Magistrato di sorveglianza di Reggio-Emilia accoglieva il reclamo di un detenuto sottoposto a perquisizione tramite denudamento in occasione dei colloqui con i familiari: visto il suo carattere particolarmente invasivo e potenzialmente lesivo dei diritti fondamentali dell'individuo, la perquisizione tramite denudamento non può essere prevista in astratto ed è legittima solo se 1) motivata su particolari esigenze di sicurezza interna che non consentono l'accertamento tramite strumenti di controllo alternativi o 2) in riferimento alla pericolosità dimostrata in concreto dal detenuto, che renda la misura ragionevolmente necessaria e proporzionata. |
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo." target="_blank"> |
Roma | Corte di Cassazione | Sentenza 15 maggio 2014 n.20355 | La necessità che l'ispezione mediante denudamento sia specificamente
motivata si applica a un detenuto sottoposto al regime dell'art.41-bis
dell'o.p.. La sottoposizione a questo regime detentivo non è una
motivazione valida per disporla. Per decisione della direzione del carcere un detenuto sottoposto al regime del 41-bis deve sottoporsi a perquisizione personale tramite denudamento in occasione di ogni colloquio col difensore. Il magistrato di sorveglianza giudica la misura legittima in considerazione del fatto che il detenuto in occasione dei colloqui entra in contatto con persone esterne e il metal detector può rilevare solo la presenza di oggetti metallici, oltre che in considerazione della pericolosità del detenuto, basata sui reati commessi e sulla sottoposizione al regime detentivo del 41-bis. La Cassazione annulla però la misura: il denudamento, in quanto misura particolarmente invasiva e potenzialmente lesiva dei diritti fondamentali dell'individuo, non può essere prevista in astratto e nelle situazioni in cui il controllo può avvenire senza ricorrervi. Deve essere disposta, con provvedimento motivato, solo nel caso di specifiche e prevalenti esigenze di sicurezza interna o in ragione di una pericolosità del detenuto risultante da fatti concreti, che renda la misura necessaria e proporzionata. Il fatto che il detenuto sia sottoposto al 41- bis non è una motivazione adeguata, ma anzi rende meno necessaria la misura, poiché il detenuto proviene de un reparto già sottoposto a controlli particolarmente severi. |
|
Roma | Corte di Cassazione | Sentenza 19 novembre 2008 n.46263 | Un provvedimento disciplinare preso nei confronti di un detenuto per
essersi rifiutato di sottoporsi a perquisizione personale tramite
denudamento, quando la perquisizione non rispetta esigenze di necessità,
adeguatezza e proporzionalità, è illegittimo. La sentenza riguarda il caso di un detenuto sottoposto a ispezione corporale mediante denudamento prima di andare a colloquio col difensore. Cf. a tal proposito la sentenza n 20355 e la sentenza n. 12286, entrambe pronunciate nel 2014 dalla Cassazione. |
|
Roma | Tribunale | Sentenza n. 39393/2014 del 13/01/2016 (Bykowski c. Ministero della Giustizia) | Lavoro in carcere: rivendicazione delle differenze retributive
dovute dal Ministero della Giustizia a un ex detenuto. Un detenuto richiede il pagamento da parte del Ministero della Giustizia di una somma di oltre 6000 euro. Per il lavoro da piantone svolto in carcere il ricorrente richiede che gli si corrispondano tredicesima, TFR e differenze retributive. Il calcolo dell'ammontare dovutogli, a suo dire, va effettuato tenendo conto del fatto che le proprie prestazioni rientrano nel livello C. Il Tribunale ritiene che il ricorrente abbia diritto alla differenza rispetto a quanto gli è già stato corrisposto, ma che questa vada calcolata a partire dal livello B con C.C.N.L. di riferimento "lavoro domestico". Il Tribunale di Roma condanna dunque il Ministero a pagare una somma di circa 1200 euro. |
|
Roma | Tribunale | Sentenza n. 30811/2013 R.G. | Lavoro in carcere: rivendicazione delle differenze retributive
dovute dal Ministero della Giustizia a un ex detenuto. Cf. Sentenza del 13/01/2016 del Tribunale di Roma |
|
Roma | Tribunale | Sentenza n. 4428/2014 | Lavoro in carcere: rivendicazione delle differenze retributive
dovute dal Ministero della Giustizia a un ex detenuto. Cf. Sentenza del 13/01/2016 del Tribunale di Roma |
|
Roma | Tribunale | Sentenza n. 44452/2011 |
Lavoro in carcere:
rivendicazione delle differenze retributive dovute dal Ministero della
Giustizia a un ex detenuto. Cf. Sentenza del 13/01/2016 del Tribunale di Roma |
|
Roma | Tribunale | Sentenza n. 49452/2011 |
Lavoro in carcere:
rivendicazione delle differenze retributive dovute dal Ministero della
Giustizia a un ex detenuto. Cf. Sentenza del 13/01/2016 del Tribunale di Roma |
|
Strasburgo | Corte Europea dei Diritti dell'Uomo | Sentenza 33290/07 del 29/04/2008, Garagin v. Italy | Sentenza conservatrice: l'ergastolo non viola l'art. 3 della CEDU. Il signor Garagin è condannato nel 1995 e nel 1997 a delle pene di 28 e 30 anni di detenzione. Nel 1999 la Procura di Bologna, in applicazione dell'art. 78 comma 1 del codice penale, indica che la pena complessiva che Gargarin deve scontare è di 30 anni. Ciononostante, con un'ordinanza del 2006 la Corte d'Appello di Roma condanna Gargarin all'ergastolo, in applicazione dell'art. 73 comma 2 del codice penale. Gargarin presenta ricorso alla CEDU per violazione dell'art. 3: l'assenza di una prospettiva di liberazione conferirebbe alla pena il carattere di un trattamento inumano o degradante. Tuttavia la Corte, con riferimento alla sentenza Kafkaris v Cyprus, ritiene che nel sistema italiano anche la condanna all'ergastolo non impedisca l'accesso ai benefici penitenziari, tra cui la liberazione anticipata, sia de jure che de facto. |
|
Strasburgo | Corte Europea dei Diritti dell'Uomo | Sentenza 10249/03 del 17/09/2009 Scoppola v.Italy | Violazione degli artt. 6 e 7 della Convenzione. Nel febbraio del 2000, il Signor Scoppola è condannato con rito abbreviato da lui richiesto a 30 anni di detenzione per omicidio, tentato omicidio, maltrattamento e possesso d'armi non autorizzato. Lo stesso giorno del rito abbreviato entra in vigore il decreto-legge 341, che modifica l'art.442 del codice di procedura penale, che stabiliva a 30 anni la pena massima con il rito abbreviato e in virtù del quale Scoppola non aveva potuto essere condannato all'ergastolo. Nel 2002 la Corte d'Appello d’Assise di Roma riconosce la richiesta d'appello del PM di Roma e muta la pena di Scoppola in ergastolo. Il richiedente allora, dopo aver tentato invano un ricorso in Cassazione, si rivolge allora alla CEDU, ritenendo che nel proprio caso ci sia stata una violazione degli artt. 7 (nulla poena sine lege) e 6 (diritto a un equo processo) della Convenzione europea dei diritti umani. La CEDU riconosce come fondata la presunzione di violazione dell'art.7, nella misura in cui al richiedente è stata applicata una norma con valore retroattivo allorché avrebbero dovuto corrispondergli la pena più lieve. Ritiene poi altrettanto fondata la violazione dell'art. 6, in considerazione del fatto che il richiedente aveva rinunciato ad alcuni diritti processuali nello scegliere il rito abbreviato e la pena massima ad esso legata, successivamente alterata con un vantaggio unilaterale. |
|
Strasburgo | Corte Europea dei Diritti dell'Uomo | Sentenza 21906/04 del 12/02/2008 Kafkaris v. Cyprus | Un ergastolo con durata precisa e prospettive di riduzione non viola
l'art. 3 della CEDU. Il reclamo mosso dal richiedente, un cittadino cipriota, ha per oggetto la propria condanna all'ergastolo per omicidio premeditato e si fonda sulla presunzione di violazione dell'art.3 della Convenzione: la pena - e dunque la sentenza - sono ritenute dal richiedente paragonabili a un trattamento inumano. La CEDU ritiene invece che non vi sia violazione dell'art.3, poiché la condanna all'ergastolo a Cipro corrisponde a 20 anni ed è riducibile per buona condotta. Secondo la Corte essa fornisce in tal modo ai detenuti, in un certo limite, una prospettiva futura ai detenuti e una concreta possibilità di essere rilasciati prima del previsto. A parere della Corte, l'unica violazione riscontrata in questo caso concerne l'art.7 (nulla poena sine lege). In particolare, la legge in vigore al momento della sentenza (successivamente abolita), non permetteva di discernere se l'ergastolo corrispondesse in effetti a 20 anni di detenzione o se, come riconosciuto in alcune sentenze precedenti a quella in questione, dovesse corrispondere alla durata della vita. |
|
Roma | Corte Costituzionale | Sentenza n. 135/2003 | Legittimità costituzionale dell'ergastolo ostativo. Il Tribunale di sorveglianza di Firenze interpella la Corte Costituzionale sulla questione della legittimità costituzionale dell'art.4 bis, nella misura in cui impedisce l'accesso alla liberazione condizionale in assenza di collaborazione con la giustizia (secondo l'art.58-ter). Il caso proposto riguarda un detenuto condannato all'ergastolo e che ha richiesto la libertà condizionale senza aver collaborato con la giustizia. La misura di applicazione dell'art.4 bis viene ritenuta dai ricorrenti illegittima a livello costituzionale per due ragioni principali: rende, di fatto, perpetua la pena per coloro che non possono o non vogliono collaborare con la giustizia, perché preclude l'accesso a misure alternative e altri benefici; viola in tal modo l'art.27 della Costituzione, che sancisce lo scopo rieducativo della pena, oltre che le prescrizioni della CEDU in materia. Nel caso in questione la Corte Costituzionale si esprime a sostegno della legittimità dell'art. 4 bis, che non viene ritenuto in alcun modo contrario alla Costituzione. La Corte adduce che nel caso preso in esame mancano gli estremi per la concessione della liberazione condizionale, dal momento che il detenuto non rientra in alcuna delle eccezioni previste all'applicazione dell'art. 4 bis e rifiuta deliberatamente di collaborare con la giustizia. |
|
Roma | Corte Costituzionale | Sentenza n. 236/2016 | La proporzionalità della pena come limite invalicabile da parte del
legislatore. Due persone sono imputate di fronte al Tribunale di Varese per aver alterato l'atto di nascita di una neonata. Il giudice ritiene che tale alterazione abbia come fine la garanzia di un legame genitoriale per la neonata, e non altri fini. Ritiene di conseguenza che le pene previste per il reato in questione (da 5 a 15 anni) siano sproporzionate rispetto al fatto e solleva questione d'illegittimità costituzionale dell'art. 567, secondo comma, del codice penale. Il giudice lamenta in particolare l'assenza di una pena cui sia applicabile la sospensione condizionale, che invece sarebbe adatta alla situazione specifica presa in esame. La Corte Costituzionale avalla l'argomentazione del giudice di Varese, affermando che la proporzionalità della pena rappresenta un limite alla potestà punitiva dello Stato e dunque alla discrezionalità del legislatore. Per la Corte, le pene previste sono contrarie agli artt. 3 e 27 della Costituzione: data la loro severità sono manifestamente ingiuste e danno vita a un verdetto la cui funzione rieducativa non sarebbe peraltro percepibile dal condannato. L'irragionevolezza della pena non è secondo la Corte conseguenza di una comparazione con altre pene previste per delitti analoghi, ma è al contrario intrinseca alla pena stessa. |
|
Strasburgo | Corte Europea dei Diritti dell'Uomo | de Tommaso v. Italy, 23.02.17, application no. 43395/09. | Le misure di prevenzione devono essere limitate ai casi in cui la
pericolosità sia dimostrata e specifica. Il signor de Tommaso presenta ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo in merito a una misura preventiva di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno impostagli dal Tribunale di Bari. La misura, revocata dalla Corte d'Appello nove mesi dopo l'imposizione da parte del Tribunale, è stata giustificata da presunti traffici delittuosi e da attività criminali recenti. Le considerazioni del Tribunale si sono poi dimostrate fondate su un errore scaturito da un caso di omonimia. La Corte Europea ritiene fondata l'accusa di violazione dell'art. 2 del Prot. 4 della Convenzione sui Diritti Umani (libertà di circolazione) mossa dal richiedente, nella misura in cui non sono state date motivazioni esaurienti rispetto alla misura preventiva disposta in prima istanza. In particolare, la misura è stata motivata da una pericolosità sociale non specificamente dimostrata né caratterizzata. La Corte ritiene inoltre che tale decisione, in larga misura arbitraria e suscettibile di interferenze, non ha dato modo a de Tommaso di prevederne l'attuazione, comprenderne le prescrizioni specifiche e poterne dedurre delle regole per la propria condotta. Inoltre, la Corte evidenzia una violazione dell'art. 6 comma 1 (diritto a un equo processo), nella misura in cui i processi del Tribunale di Bari e della Corte d'Appello non sono stati pubblici. Non rileva al contrario violazioni degli articoli 13 (diritto a un rimedio efficace) e 5 (diritto alla libertà), in quanto il ricorso in appello da lui presentato è risultato essere effettivo e aver rimosso completamente la misura preventiva, la quale comunque non corrispondeva a violazione della libertà personale ma solo a limitazione della circolazione come previsto per legge da simili provvedimenti giuridici. |