Il viaggio etno-musicale di Joe Perrino dentro gli istituti penitenziari della Sardegna. E il libro di Sergio Abis, «Chi sbaglia paga», con le lettere dei detenuti a don Ettore Cannavera, fondatore della comunità La Collina. Le prigioni dell’isola sono ormai utilizzate come un confino: per esempio ad Arbus Is Arenas e Onanì gli stranieri sono circa il 78%, rispetto a una media nazionale del 32%
di Patrizio Gonnella su il manifesto del 3 aprile 2021
Please Governor Neff mi lasci libero. E il Governatore del Texas Pat Morris Neff, effettivamente lo lascio liberò e lo graziò. Eravamo negli anni Trenta del secolo scorso. Senza i blues di Leadbelly non ci sarebbe stata buona parte della musica folk e rock dei decenni successivi. E senza il viaggio etnomusicale di John Lomax e di suo figlio Alan nessuno avrebbe avuto modo di assaporare quei blues di Leadbelly che parlano all’anima. La Library of Congress aveva incaricato i Lomax di registrare la musica degli Stati Uniti del Sud, che fino ad allora si tramandava oralmente e rischiava di andare perduta. John Lomax capì che le prigioni negli anni Trenta americani erano posti preziosi dove si potevano incontrare biografie musicali meravigliose, proprio come quella di Leadbelly.
ALTRETTANTO STRAORDINARIO è il viaggio etno-musicale di Joe Perrino in Sardegna in giro per le dieci carceri dell’isola. Un viaggio che per ora è un disco – «Canzoni di malavita n. 3. Per grazia non ricevuta» – ma che diverrà a breve anche un film girato insieme a Giovanna Maria Boscani, artista musicale sassarese. Joe Perrino, rocker cagliaritano, diciotto dischi sulle spalle, ha dato vita a un eccezionale progetto di recupero di una tradizione musicale che nasce dietro le sbarre, così raccogliendo e tramandando racconti di vita, gelosie, lamentele, sogni, frustrazioni. In alcuni casi ha fatto proprio la stessa cosa dei Lomax, ossia è andato a recuperare una tradizione musicale galeotta che fino ad allora non aveva mai avuto occasione di diventare testo scritto e cantato da non detenuti. Joe Perrino ha sia tradotto in canzoni scritti, disegni, dipinti e piccole sculture di detenuti dai quali ha estrapolato il cuore pulsante, ha sia restituito vita a brani tradizionali, come nel caso della traccia Milano-Livorno-Binario 21.
«ANNUNCIO RITARDO: sono quasi due ore, il treno non parte, chiedo a un passante cosa è successo, un drogato è morto nel cesso». Una canzone che racconta di un ragazzo che dalla Sardegna finisce a Milano. A lui gli è andata male a causa dell’eroina. Quell’eroina che ti portava a dire che la prima volta era bello. «Gli è andata male con la fortuna. Rubava non per quattrini. Gli spacciatori bastardi e assassini». Una canzone che nel cuore degli anni Settanta era cantata dai gruppi anarchici milanesi.
In Ricominciare da capo c’è invece un riassunto di emozioni di vita carceraria: la paura del dopo, il dolore, la non rassegnazione, la naturale ricerca della felicità di chi ora sta dentro, ma poi starà fuori. Non c’è auto-commiserazione né esaltazione di violenza, ma solo vita vera, fatta di sentimenti di vendetta non sopiti. Si percepisce lo scorrere inesorabile, lento, tragico, ripetitivo, ossessionante del tempo. «Sono rinchiuso in una cella dimenticato. Viene l’inverno. Il freddo che morde. Tristi pensieri… Arriva l’estate, affaticato stanco e sudato mentre il borghese si gode la vita».
TEMPO E SPAZIO sono categorie classiche che definiscono la pena moderna. Il tempo e lo spazio della prigione si ritrovano in questa raccolta musicale, terzo capitolo di un progetto che meriterebbe di diventare patrimonio bibliotecario pubblico così come avvenne per il lavoro di ricerca di padre e figlio Lomax nelle prigioni degli Stati Uniti del Sud.
Joe Perrino ha lavorato dal basso a una tradizione musicale che solo in parte è assimilabile alla musica neo-melodica napoletana o barese. Quest’ultima riesce meno a scavare nella zona grigia dei sentimenti, che non è fatta solo da espressioni dalle tinte forti, come quando il mio omonimo Patrizio, cantante morto per overdose a 24 anni a Napoli, scrive a canta che non vuole «l’attenuante minorenne, perché je l’aggio acciso comme a n’ommo gruosso».
NELLE STORIE CANTATE da Joe Perrino, al pari di quelle di Tom Waits in «Orphans: Brawlers, Bawlers and Bastards», c’è l’intensità della vita trascorsa in prigione; non c’è dunque solo l’affresco di un mondo criminale sublimato a mondo perfetto, fondato sulla cultura machista della violenza. C’è anche lo sguardo antropologico alla vita di galera. Per questo il progetto musicale di Joe Perrino è anche una via attraverso cui conoscere le dieci carceri sarde con i suoi due mila detenuti.
Finire in carcere in Sardegna non è come stare in continente. C’è l’isolamento forzato determinato dalla lontananza, dalla difficoltà di tenere in piedi legami affettivi, visto che non sempre sono lì reclusi i sardi di origine. La Sardegna, un tempo perché ci si mandava i terroristi e i mafiosi, ora perché è luogo privilegiato di trasferimento degli stranieri provenienti dalla terraferma, tende ad assomigliare a un confino. Vi sono istituti con una presenza percentuale di detenuti stranieri elevatissima; si pensi che ad Arbus Is Arenas e Onanì gli stranieri sono intorno al 78%, rispetto a una media nazionale pari al 32% circa.
PER CAPIRE COSA ACCADE nelle carceri sarde e per conoscere un’alternativa possibile alla prigione quale pena, ci si può affidare oltre che a un disco, anche a un libro scritto da Sergio Abis, Chi sbaglia paga (Ed. Chiarelettere). Abis raccoglie le lettere scritte in un ampio arco di tempo dai detenuti a un sacerdote, don Ettore Cannavera, fondatore della Comunità «la Collina», a Cagliari. Le lettere dei detenuti a don Ettore costituiscono uno spaccato sociologico attraverso cui conoscere il carcere vero, che purtroppo tende a non coincidere con quello descritto nelle norme dell’ordinamento penitenziario. Il carcere reale è fatto di sofferenze, isolamento relazionale ed affettivo, disagio, paura, preoccupazioni stratificate, abbandono emotivo e sociale. Don Ettore gestisce nelle bellissime colline cagliaritane una comunità dove ragazzi, giovani adulti e non solo scontano parte della loro pena in misura alternativa alla detenzione.
Ho avuto la fortuna di trascorrervi alcune giornate insieme a don Ettore, ai suoi educatori e a i suoi ospiti. Si respira un’aria non di afflizione, sofferenza, abbandono, solitudine. La pena recupera così quel suo senso costituzionale che invece sembra tragicamente perso leggendo le lettere dei detenuti che ha così mirabilmente raccolto Sergio Abis. È un libro duro che tocca le corde anche di chi tante ne ha lette e tante ne ha viste. Don Ettore non è il classico sacerdote che raccoglie la confessione dei peccatori; lui è la speranza di uscita dal buio, verso quella che dovrebbe essere una riconversione ecologica della pena.
UN DISCO E UN LIBRO ci portano dentro le prigioni di quella bellissima terra che è la Sardegna. L’arte e la letteratura costituiscono una forma di conoscenza non scontata del reale, in quanto libere da schemi precostituiti e da stereotipi interpretativi. Joe Perrino e don Ettore Cannavera (la cui opera traspare dal lavoro di scrittura e di archivio di Sergio Abis) sono due volti bellissimi di una Sardegna che – va ricordato – è la terra di Zirichiltaggia, ossia di quella poesia in dialetto grazie alla quale Fabrizio De André ci ha condotto per mano nell’isola, facendoci scoprire l’umanità di luoghi che possono essere raccontati solo se intensamente vissuti.